Dialogando con Pablo Martínez

Catechista, conferenziere, scrittore, autore e cantante cattolico argentino. 184 mila follower su Instagram e 142 mila su Facebook seguono i suoi video sulla Parola di Dio.

Pablo Martínez ha 44 anni. Durante la sua adolescenza i genitori hanno iniziato a partecipare alla vita parrocchiale, coinvolgendolo, e così è iniziato il suo percorso di fede. Laureato in Scienze dell’Educazione, da oltre 20 anni lavora nelle scuole e negli istituti superiori, insegnando Teologia, Scienze sacre e Filosofia. Lo fa, come laico, anche attraverso la musica.

In che modo sei coinvolto nell’insegnamento della Parola?
Mi definisco un catechista, cerco di condividere la Parola nelle scuole della mia diocesi, ma soprattutto attraverso la musica, un linguaggio che abbatte le frontiere e permette di evangelizzare. Da 7 anni registro brevi video quotidiani di meno di un minuto che pubblico sui social network: con un gesto, un segno o un invito propongo alle persone di leggere la Parola di Dio. All’inizio erano destinati ai giovani di una delle scuole per cui ho lavorato, ma oggi hanno una portata al di là dei confini nazionali.

Ti aspettavi di raggiungere centinaia di migliaia di persone con questi video?
No! Lo vivo con stupore e gratitudine, ma anche con responsabilità. Vedo che per molte persone ciò che faccio è prezioso. A volte è difficile, ci vuole tempo, programmazione, e tra la famiglia e tutto il resto è complesso, ma lo si fa ugualmente.

Cosa significa evangelizzare attraverso Internet?
Sto scoprendo i social con tutto il loro potenziale. All’inizio pensavo che fossero solo uno strumento per raggiungere i miei studenti, perché mi prestavano più attenzione e interagivano più che in classe. Poi ho capito che è un habitat, un mondo dove tante persone si esprimono, comunicano, condividono interessi, gusti, lamentele, gioie. Gesù ci invita ad andare fino ai confini della Terra, e oggi i social network sono quel confine, nel quale possiamo raggiungere persone che non frequentano le nostre comunità.

Ci sono anche dei contro?
Come ogni territorio in cui si va, vi sono luci e ombre. Anche papa Francesco ne parla. A volte può essere un territorio di manipolazione, di abuso, dietro il quale le persone si nascondono… Ma soprattutto cerco di scoprirne le potenzialità. È un territorio di missione; dobbiamo imparare a viverlo, abitarlo e scoprirne il bene, perché laddove c’è un essere umano, Dio è lì.

C’è differenza nel parlare della Parola virtualmente o di persona?
La presenza non sarà mai superata dalla virtualità, la fede è principalmente comunitaria, ha bisogno di essere resa visibile negli altri e con gli altri. Ma è vero che oggi molte persone comunicano virtualmente, e se aspettiamo la loro presenza fisica non ci arriveremo mai. Quindi la vedo come una missione: andare, condividere con loro e riportarli alla presenza fisica. La rete dà anche la possibilità di generare spazi di incontro, di accorciare le distanze. Oggi, ad esempio, ho fatto una diretta da San Pietro con i follower e mi sembrava che fossero parte di questo mio pellegrinaggio.

Come vedi i giovani in relazione alla fede?
Ci chiedono di ripensare non la dottrina, ma il modo in cui ci rivolgiamo a loro, i tempi, i linguaggi, i metodi che usiamo. È una sfida riuscire a proporre la gioia del Vangelo nella cultura attuale. Oggi l’essere umano è abituato ad avere tutto on demand (televisione, radio…), mentre la fede non è su richiesta, è comunitaria e i tempi sono gestiti da Dio. La sfida è quindi come proporre la Buona Novella di Gesù a persone che stanno inconsapevolmente cercando Dio. Nei desideri, negli aneliti e nelle ricerche dei giovani di oggi c’è un desiderio di Dio.

Lo stanno cercando senza saperlo?
Come dice sant’Agostino, l’essere umano ha una sete che solo Dio può colmare, siamo fatti così. Credo che questo desiderio che è nel cuore di ogni uomo, possa essere soddisfatto solo da Dio. Una delle principali preoccupazioni dei giovani di oggi è il suicidio. Questo accade in molte società: la perdita di significato della vita, il non sapere perché o per cosa siamo qui… Penso sia il sintomo di una società che sta dimenticando Dio.

Come i media possono raggiungere il pubblico parlando di Dio?
Ogni mezzo che cerca e comunica la verità, la bellezza e la bontà implicitamente sta parlando di Dio. Esplicitamente, i media possono essere portatori di speranza in mezzo a una società che sembra indifferente di fronte a tante brutte notizie. Viviamo chiusi in noi stessi; i media sono chiamati a motivare le persone ad uscire dalla loro reclusione, ad aprirsi ai bisogni degli altri e scoprire che la vita è possibile. Dovrebbero, inoltre, generare spazi per mostrare cose positive in modo che le persone dicano: è possibile fare altre cose, avere altri sogni.

Cosa manca ai cristiani per trasmettere il messaggio di Gesù in modo più attraente?
Tornare da Lui, l’esperto in creatività e attrazione. La parola “attrazione” è molto bella perché è scritto che i discepoli, pieni di stupore, erano attratti da Gesù per l’eccezionalità della sua persona. Come ha detto Benedetto XVI, invece di fare proselitismo, la Chiesa cresce per attrazione. E come si attrae? Non con una campagna di marketing, ma facendo ciò che siamo chiamati a fare e tornando a Gesù: è Lui che converte, che tocca il cuore. Lo Spirito Santo è il vero protagonista. Dovremmo annunciare Lui, con le parole ma soprattutto con la testimonianza di vita. Torniamo alla fonte che è Gesù, per lanciarci nella novità che Lui ci porta per il futuro.

«La musica è un linguaggio che abbatte le frontiere e permette di evangelizzare».

Hai trovato difficile parlare di Dio e distinguerti nell’universo musicale?
No. Mi sono sempre dedicato alla musica religiosa, alla musica di lode e di preghiera. Spesso la Chiesa non riconosce la sua importanza, mentre la musica è un mezzo, un linguaggio fondamentale per raggiungere le nuove generazioni. I giovani ascoltano musica, la inseriscono sui loro social, traggono frasi dalle canzoni; è il modo ideale oggi per comunicare il messaggio. Sarebbe importante che la Chiesa sostenesse i musicisti e non li lasciasse soli nelle loro iniziative.

Hai conosciuto persone che si sono convertite grazie alla tua musica?
Persone che attraversano momenti di grande dolore, come la perdita di una persona cara, o persone prive di libertà, cantano le mie canzoni. L’altro giorno una persona mi ha detto che aveva scoperto la sua vocazione con una mia canzone. Cose belle che vivo con gratitudine e stupore. La musica ha la libertà di trascendere, di raggiungere spazi insospettabili, per cui mi sento benedetto e felice.

Pablo Martínez in concerto al Madrid Live Meeting, organizzato dalla Delegazione Episcopale dei Giovani dell’Arcidiocesi di Madrid (Spagna), 8 ottobre 2022.

Quando ti senti più appagato?
Quando ad un concerto vedo che aiuto una persona a pregare, mi commuovo. E quando qualcuno viene da me con le lacrime negli occhi e mi dà un bacio, un abbraccio, o è molto felice, io dico: wow, guarda cosa si può fare con un piccolo video, una canzone! L’obiettivo è aiutare qualcuno ad avere una giornata più felice.

Come vive tua figlia quello che fa suo padre?
Sta scoprendo le esperienze. Ovviamente non la forziamo, mi piace quando canticchia le canzoni, non sono io a metterle ma è lei che le chiede. Questo mi riempie l’anima, perché è un modo di catechizzare. Lei a poco a poco sta facendo i primi passi nella fede, speriamo che più tardi, se Dio vuole, possa prendersi un impegno personale. Certo l’abbiamo battezzata e le stiamo trasmettendo quello che consideriamo il tesoro della nostra fede. Ma in spazi di libertà e autonomia.

I processi non possono essere forzati…
Né forzati né accelerati. E le crisi sono importanti in questi percorsi, a volte dobbiamo rompere con la fede ereditata. Non dimentichiamo che se Dio è stato paziente con noi, lo sarà anche con i nostri figli. Siamo tutti in cammino, Dio continua ad essere paziente anche con noi, per cui nel comunicare la fede dobbiamo sempre rispettare la libertà, i tempi, i modi di arrivare di Dio. Dobbiamo fare come santa Monica che pregava per suo figlio Agostino: nessuna lacrima è vana.

Qualche desiderio per il mondo?
Tanti! Innanzitutto, riscoprire la pace in questo tempo di conflitti tra gli Stati, all’interno degli Stati, ma soprattutto all’interno dei cuori. La pandemia sembrava essere un segno che ci mobilitava, ma di nuovo stiamo tornando alla normalità dell’anestesia, e questo è pericoloso. Il mio desiderio è che lavoriamo per la pace. È uno dei più grandi compiti che noi cristiani abbiamo: essere testimoni e costruttori di pace.

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