Dialogando con Giuseppe Notarstefano

Presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, la più antica realtà associativa ecclesiale. Una rete di amicizia, di servizio alla comunità, ai più piccoli, al bene comune. Persone che si prendono cura l’una dell’altra. «Il grande tema secondo me oggi è impegnarsi a edificare delle comunità vere nei territori. La Chiesa è credibile quando convince con la sua autenticità e radicalità evangelica». Intervista tratta dal numero di febbraio 2022 della rivista mensile Città Nuova
Giuseppe Notarstefano

L’Azione Cattolica è stata una grandiosa fucina in cui si sono forgiati politici, sindacalisti, laici e sacerdoti, madri e padri. Cos’è l’Azione Cattolica oggi?
Io penso che oggi l’associazione sia una realtà di persone che vogliono vivere la vita in pienezza creando una rete di amicizia, di servizio alla comunità, ai più piccoli, al bene comune. Noi per Statuto siamo al servizio della vita della Chiesa e quindi del regno di Dio. Ma c’è un’espressione di Vittorio Bachelet (giurista e politico, è stato presidente dell’Azione Cattolica e nel 1980 fu assassinato dalle Brigate Rosse, ndr) che ricordiamo sempre: prima di tutto prendersi cura l’uno dell’altro. Questa è la priorità. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando le attività erano limitate, ma proprio cercando le persone ci si è resi conto dei loro bisogni, ci si è preso più cura degli anziani, dei giovani penalizzati dalla mancanza di vita sociale, abbiamo collaborato con la Protezione Civile per il percorso di vaccinazione. Tutto è nato dalla volontà di tenersi insieme.

Provo a presentarti ai nostri lettori. Siciliano, 51 anni, vivi a Palermo con la moglie e il figlio di 12 anni. Ricercatore di Statistica economica, insegni presso l’Università Lumsa. Ma come sei entrato in contatto con l’Ac? C’è stato qualche episodio che ha segnato il tuo cammino nell’associazione?
Io sono palermitano d’adozione, ma vengo da un paesino che è diventato un modo di dire, Canicattì. Lì sono nato un febbraio durante la finale del festival di Sanremo, mia madre lo ricorda sempre. A Canicattì ho conosciuto l’Azione Cattolica quando frequentavo la prima media. Un insegnante ci ha invitati a un incontro e io e un mio compagno ci siamo andati, per curiosare. Quando sono arrivato, ho visto un gruppo di ragazzi che aveva in mano dei libretti marroni, che poi ho ben conosciuto come uno strumento di vita di preghiera. Mi sono sentito accolto. Frequentando quel gruppo, anche per la presenza dell’educatore che non era un compagnone ma una persona che ti sosteneva, ho imparato che la Chiesa mi riconosceva come una persona capace di fare delle cose. La domenica, alla messa dei ragazzi, noi riservavamo i posti ai ragazzi, e io ho pure litigato con amiche di mia mamma e di mia nonna che volevano sedersi. Noi difendevamo quei posti perché erano “per i ragazzi”. Da queste piccole cose, anche un po’ politicamente scorrette, abbiamo capito che attraverso l’Azione Cattolica c’era un coinvolgimento in pienezza nella vita della comunità.

Lì hai conosciuto il magistrato Livatino?
L’associazione nel paese era anche una presenza culturale. Durante il maxi-processo, organizzammo degli incontri. Un pomeriggio venne Rosario Livatino che fece una bellissima conferenza, uno dei suoi due scritti celebri che ci sono rimasti. In quegli anni tramite l’Ac abbiamo incontrato persone meravigliose, Bartolomeo Sorge, Leoluca Orlando… Persone che ci proiettavano a vivere pienamente il tempo, la storia.

E padre Puglisi…
Io non ho conosciuto padre Pino, ma la sua presenza a Palermo era fortissima. Lui è stato assistente della Fuci e ha formato tanti giovani. Quando il cardinale Romeo mi chiamò a fare il direttore della Pastorale sociale e del lavoro, mi ricordò una frase di padre Puglisi. La cito un po’ a memoria: «Se ognuno fa qualcosa, allora le cose possono cambiare». Così noi, durante la Settimana sociale del 2010, abbiamo preso l’impegno di dedicarci ai quartieri, alle periferie. Parlando con i suoi più stretti collaboratori, ho capito che padre Puglisi non era un prete anti-mafia, ma era semplicemente per l’uomo, per la sua educazione. Lui aveva capito che la mafia non è solo un’organizzazione criminale, ma è una malattia che abbiamo dentro di noi, che genera certi comportamenti, trova vie facili, non rispetta le persone. Padre Pino ci ha insegnato che dovevamo fare un percorso per l’uomo, per la comunità. È così che si combatte la mafia.

Le sfide che devono affrontare la Chiesa e la società oggi sono spesso elencate da papa Francesco in 5 parole che iniziano con la “p”: pianeta, povertà, periferie, profughi, pace. Ne vedi altre di importanti?
Noi da subito abbiamo riconosciuto nel magistero di papa Francesco la via sulla quale mettersi in cammino. Abbiamo lavorato in questi anni prendendo sul serio la prospettiva di “Chiesa in uscita”. Queste “p” che ricordi sono coordinate importanti, sono come i petali di una margherita, ma al cuore di questo c’è una grande intuizione che il papa formula nella Fratelli tutti quando parla di «nuove visioni di futuro». C’è una speranza da raccontare, che per noi cristiani è Cristo. C’è una possibilità di guardare in avanti con grande fiducia, in questo tempo difficile. C’è la possibilità di rielaborare le forme di stare insieme. Questa è la grande, bella sfida che abbiamo davanti. Il rischio forte è che possiamo essere tentati di chiuderci nelle nostre comunità, per difenderci, evocando il “monastero”. Ma sbagliando a citarlo, perché nel Medioevo i monasteri non erano luoghi avulsi dalla comunità, ma modelli generativi.

Erano centri dove oltre alla fede si elaboravano cultura e scienza, un po’ la Silicon Valley di allora…
Non erano luoghi di conservazione, ma di innovazione. Così deve essere il cristianesimo oggi.

È in questa direzione che spinge il Sinodo che ha da poco preso il via?
Il cammino sinodale non può essere un percorso nel quale ci mettiamo a ragionare su noi stessi. Papa Francesco lo scorso 30 aprile, incontrando il Consiglio nazionale, ci ha proprio affidato questo compito: impegnarci perché il percorso sinodale non sia né astratto né autoreferenziale. Deve essere un luogo di elaborazione della vita sociale, civile, alimentata dal codice comunitario. Dobbiamo riscoprire le ragioni del nostro stare assieme, che per noi sono spirituali e teologiche, ma il mondo ne percepisce i risultati come categorie umane, buone, come la cooperazione, la fiducia. Questo è un grande tempo di trasformazione, di conversione, per tornare in profondità e scoprire la forza generativa del Vangelo.

Qual è il contributo specifico che l’Ac può dare per affrontare queste sfide? Qual è oggi il suo “carisma”?
Per noi è vivere la dimensione comune, quotidiana della fede, immersa nella vita del mondo. Il grande tema secondo me oggi – e penso che dovrà essere l’approdo del percorso sinodale – è impegnarsi a edificare delle comunità vere nei territori. La Chiesa è credibile quando convince con la sua autenticità e radicalità evangelica. Per la Chiesa degli ultimi c’è sempre un grande rispetto perché è credibile. Chi non rispetta, ad esempio, Biagio Conte o altri come lui?

A volte pare che i movimenti e le associazioni laicali si rinchiudano ognuna nel proprio orticello, mentre, aumentando la collaborazione, potrebbero essere molto più visibili e incisivi. Come la vedi?
Io non so se visibile sia la parola giusta, ma certamente otterrebbero una presenza più “saporosa”, più “gustosa”. Il problema non è il numero, a volte ci sono degli ingredienti nei cibi che, sebbene in piccole quantità, danno gusto. Il sale fra tutti, ma anche lo zafferano, che viene utilizzato moltissimo nella cucina siciliana. Io noto fra le associazioni e i movimenti una gran voglia di collaborare proprio perché siamo differenti. Dobbiamo gareggiare a stimarci reciprocamente. Le nostre comunità non devono essere luoghi di uniformità. Il raccordo si ha nella dimensione più profonda, che è quella spirituale, del ritrovarsi uno. II tema dell’unità è il più importante di questa stagione. Questo non vuol dire solo lavorare assieme, fare dei progetti, delle alleanze. Ma mostrare che la frase del Vangelo «che siano una cosa sola», è una realtà vissuta.

Un’ultima domanda. Una delle proposte che l’Ac fa ai suoi iscritti è la santità: pensi che sia ancora proponibile ai giovani d’oggi?
Tutto sta nel capire la parola. È una parola antica, però ci sono tante parole antiche che sono belle. Penso a una figura affascinante, come Carlo Acutis. Gente come lui dimostra che si può riscoprire la santità come una parola antica, ma non vecchia. La sfida è ridire la bellezza di una vita piena, vissuta intensamente per gli altri. Questa è la santità. E affascina ancora.

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Azione cattolica italiana, un po’ di storia
1867: due giovani universitari, Mario Fani e Giovanni Acquaderni, fondano La Società della Gioventù cattolica italiana (SGCI), con il motto “Preghiera, Azione, Sacrificio”.
1904: con la benedizione di papa Pio X nasce l’Azione Cattolica Italiana (ACI).
1959: Aci raggiunge il numero di 3.372.000 iscritti.
1969: nasce l’Azione Cattolica dei Ragazzi (Acr), che coinvolge bambini e ragazzi dai 3 ai 14 anni, aiutandoli ad essere protagonisti del loro cammino di fede.
2020: gli iscritti odierni ad Aci sono 270 mila.

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