Dialogando con Daniele Mencarelli

Autore di poesie e di narrativa, collabora con periodici e quotidiani, scrivendo di cultura e società. Con il romanzo Tutto chiede salvezza ha vinto il Premio Strega giovani

Ho conosciuto Daniele Mencarelli leggendo Tutto chiede salvezza (Mondadori), il suo secondo romanzo, vincitore del Premio Strega giovani nel 2020 (anche il primo, La casa degli sguardi, ha vinto premi). Non ho una predilezione per i romanzi vincitori di premi, ma per i temi e lo stile di Daniele Mencarelli, sì: la malattia, la follia, la spiritualità, la poesia.

Daniele Mencarelli guarda con struggente umanità e poesia vite esposte al dolore, spezzate, esplose, che, come lui stesso scrive, «chiedono di essere testimoniate». Vite che sono anche la sua. Il suo ultimo romanzo, Sempre tornare (Mondadori, 2021), chiude una trilogia autobiografica retrospettiva che parte dall’esperienza presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, dove Daniele ha lavorato nel 2000, torna al 1994, anno segnato da un trattamento sanitario obbligatorio, per arrivare al viaggio (dell’inquietudine) in autostop del protagonista diciasettenne, nel 1991.

Con la trilogia di romanzi autobiografici metti a nudo la tua vita, raccontandone anche i momenti più critici. Al contempo la rivesti con la scrittura, che trasfigura quelle crisi in pagine di (dolente, illuminata) poesia. Quanto c’è di terapeutico nel raccontarsi? Cosa salva dal rischio del narcisismo, dell’esposizione del sé?
Il rischio di prendere la scrittura come uno specchio, più o meno deformante, utile solo alla nostra vanità c’è sempre. Quando ho deciso di scrivere questa trilogia, ho avvertito immediatamente il tema della compresenza, per me centrale, fondamentale in una letteratura che voglia essere ancora testimone dell’uomo e del tempo. Una specie di antidoto, a pensarci, alla scrittura come esercizio di narcisismo fine a sé stesso. Compresenza di vite ed esperienze, di dolori, di obbedienza al destino e alla morte, non di meno alla salvezza dell’amore e della fratellanza. Lo scrittore, l’artista sanno cogliere l’universo comune, il sangue medesimo che ci unisce. Tutto quello che l’uomo intossicato dal potere nega. Stiamo qui di nuovo a parlare di guerra. Ad anteporre i confini al bene. I temi non si cambiano, si rinnova il dovere umano, morale e civile, di essere testimoni attraverso l’arte. Per quanto mi riguarda, la scrittura non è mai terapeutica, spero lo sia per chi l’accoglierà.

Il protagonista dei tuoi romanzi incarna tre figure archetipiche: il poeta, il folle, il pellegrino. Cosa hanno in comune?
Questi archetipi rimandano a un tema che permea dal mio punto di vista l’esperienza umana. Il divenire. La ricerca come tessuto naturale della nostra vita. Il movimento. Il poeta cerca nella lingua. Il folle dentro la realtà. Il pellegrino, sino al cielo più alto.

Nei tuoi romanzi c’è un desiderio struggente di senso («Io sono qui perché devo capire./ Non posso più fare finta di niente») e un rifiuto netto della mediocrità («Ogni giorno nel mio petto esplode un duello, sempre lo stesso./ Un duellante si chiama tutto. Il suo avversario si chiama Niente»). È una tensione che può diventare malattia (“sindrome di salvezza”). La follia è anche una forma di salvezza dalla mediocrità, dall’insensatezza?
Sì, può diventare ossessione, sfida intossicata al mistero. Ma tra lo sfidare malamente il mistero e negarlo totalmente preferisco, senza ombra di dubbio, la prima ipotesi, in fondo è il fallimento più umano di tutti, assieme al tradimento… Mi definisco un aspirante credente, non ho un Dio con nome e cognome da onorare. Ma negarsi all’enigma, termine tanto caro a Borges che secondo me restituisce la misura dell’esperienza della realtà, è un delitto vero e proprio. Vuol dire esistere privandosi di una dimensione, che c’è, almeno per me, innegabilmente. Poi si può perdere la misura, ma vale anche con l’amore. Tutto è misura che spera dismisura.

Nel reportage per Sette – Corriere della sera, del 18.04.2021, intitolato Negli occhi dei pazzi, racconti un viaggio nei luoghi di cura della malattia mentale. Quali condizioni hai trovato? A più di 40 anni dalla Legge Basaglia, stiamo andati avanti o tornando indietro?
È una questione centrale, enorme. Oggi il tema della malattia mentale, dai disturbi psicologici alle patologie più gravi, è stato apparentemente sdoganato. C’è la corsa da parte di gente dello spettacolo a dichiararsi nevrotici, o bipolari, o quello che vuoi. Ma lo sdoganamento apparente è accompagnato da una semplificazione inaccettabile. Il disturbo mentale è avulso da qualsiasi tema esistenziale, un po’ come può essere una gastrite, ma anche da qualsiasi vera analisi sociale e ambientale. L’approccio di Basaglia era esattamente all’opposto. L’uomo nella sua interezza.

Il protagonista dei tuoi romanzi è un empatico: «Di quanto dolore altrui devo caricarmi?/ Esiste una misura? Un metro da imitare?». Ogni incontro del viaggio di “Sempre tornare” è un’immersione nella vita di sconosciuti che si fanno prossimi; in sette giorni “i cinque pazzi” compagni di Tso (trattamento sanitario obbligatorio) di “Tutto chiede salvezza” diventano “fratelli”. L’empatia è il suo superpotere o è la sua supervulnerabilità?
Entrambe le cose. Io credo che certi dualismi rispetto a caratteristiche e sentimenti siano utili per chi tenta di costruire una percezione di sé in qualche modo disumana. Percezione, e narrazione, di una stabilità che in realtà non esiste. C’è soltanto il divenire, la trasformazione costante. Oggi l’empatia è stato il mio superpotere, perché mi ha permesso di entrare nelle vite degli altri con coraggio e al tempo stesso misura. Domani, magari, non sarà così, verrò travolto dall’incapacità di dosarmi. Ma c’è sempre un’altra prova.

In “Sempre tornare” c’è una nostalgia di Dio che assurge a contemplazione e preghiera: «Io è come se c’avessi dentro un cane che s’è perso il padrone, con quella nostalgia, come se c’avesse vissuto insieme. E lo cerca ovunque. In certi momenti il profumo del padrone si fa più intenso, allora tutto diventa una presenza innamorata, ma sono lampi, bruciature di luce, in quegli istanti vedo la mano che ha piantato gli alberi». Anche la tua fede è così?
Sì, la mia ricerca spirituale vive di gerundi, mentre per molti è fatta di participi passati.
Non vivo da convertito. Vivo da cercatore. Ma non posso accettare il nulla come sorgente e orizzonte della nostra vita. A breve compirò 48 anni. Non esagero quando dico che tutta la mia esistenza, un giorno dietro l’altro, si è consumata dietro questa splendida ricerca, che ha nella sua impossibilità ultima, forse, il primo vero segno di Dio.

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Date
1997 Sulla rivista clanDestino esordisce come poeta
2018 Pubblica il suo primo romanzo, “La casa degli sguardi”
2020 Esce “Tutto chiede salvezza”, Premio Strega giovani
2021 Netflix produce la serie omonima
2021 “Sempre tornare” chiude la trilogia autobiografica

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