Dialogando con Brendan Leahy

Vescovo della diocesi di Limerick, in Irlanda, sta affrontando con grande cura la piaga degli abusi sui minori. Molte le esperienze pastorali di vicinanza sia a chi li ha subiti che a quanti li hanno commessi. «Ho sentito una spinta a farmi veramente uno con quelli che gridano silenziosamente nel dolore per via del tradimento che sentono da parte della Chiesa nella sua veste istituzionale».
Brendan Leahy

Sappiamo che ha tante esperienze nella vita pastorale in Irlanda, dove la Chiesa cattolica affronta da tempo gli scandali degli abusi. Potrebbe condividerne qualcuna con noi?
Una prima esperienza risale al 1995, quando è scoppiato in Irlanda il primo scandalo di pedofilia di un prete. Dietro la richiesta dell’arcivescovo mi sono trovato in quella parrocchia. Non lo dimenticherò mai. Sarebbe difficile descrivere i diversi sentimenti dei parrocchiani – la rabbia da una parte, il desiderio di difendere il sacerdote accusato dall’altra –. Tanti si sono sentiti traditi, confusi, feriti. Insieme con un altro sacerdote, ho cominciato a visitare le famiglie dei chierichetti… Ho sentito fortemente il peso di trovarmi davanti all’impossibilità.

Sembrava che qualsiasi cosa fatta o detta fosse vista dai diversi parrocchiani come sbagliata. Un giorno, però, ho avuto una luce. Il sacerdote psicologo americano, Stephen Rossetti, ci aveva fatto una conferenza in diocesi, spiegandoci che, quando uno scandalo di pedofilia scoppia nella Chiesa, è come un parafulmine: attira tutto il negativo che la gente abbia mai sentito verso la Chiesa. Tante ferite, anche del passato, anche se non hanno niente a che fare con la pedofilia, vengono fuori. Ebbene, pensando a questo, ho ricordato che Chiara Lubich aveva anche detto che Gesù Abbandonato è come un parafulmine. Egli ha assunto tutto il negativo, il tradimento, le situazioni impossibili, l’assenza di aiuto… consumando tutto in sé nell’amore, e così trasformando tutto in amore. Egli si è fatto piaga per risanare tutte le piaghe.

Ho capito che potevo rivivere almeno un po’ come lui. Potevo anche io essere come Lui il “parafulmine”, lasciando che il negativo mi colpisse, e poi consegnare tutto, come ha fatto Gesù, nelle mani di Dio Padre, credendo al suo amore. Sono riuscito a ricominciare ad andare fuori di me stesso per stabilire rapporti nuovi anche con gente veramente delusa con la Chiesa. Pian piano ho visto apparire nuovi germogli di vita nella parrocchia. Per me, però, quel periodo rimane un’esperienza che mi ha fatto capire che la Chiesa non è semplicemente frutto delle nostre attività, ma piuttosto la si genera, amando Gesù Abbandonato.

La visita del papa in Irlanda nel 2018, per la Giornata mondiale delle famiglie, ha segnato una tappa importante…
Nei mesi prima della visita del papa sono stati pubblicati sui giornali tanti articoli negativi sulla Chiesa. Un rapporto davvero scioccante è uscito in Pennsylvania, negli Stati Uniti, e poi ci sono state anche le dimissioni dell’allora cardinale McCarrick. Qualche settimana prima della Giornata mondiale, pensando a tutto questo e alla piaga profonda che esiste tutt’ora in tanti riguardo alle mancanze della Chiesa, due pensieri mi hanno colpito. Ho letto una frase di mons. Klaus Hemmerle che nel 50° anniversario della Reichs Pogromnacht (Notte dei cristalli, 10 novembre 1938, ndr) in Germania, in una preghiera forte ha affermato: «È la mia propria gente che l’ha fatto». Ho ricordato anche una frase di Chiara Lubich nel testo Paradiso ’49: «Ad ogni sbaglio fatto dal fratello chiedo io perdono al Padre come fosse mio ed è mio perché il mio amore se ne impossessa».

Ho sentito una spinta a farmi veramente uno con quelli che gridano magari silenziosamente nel dolore per via del tradimento che sentono da parte della Chiesa nella sua veste istituzionale. Per dirla in breve, essendomi confrontato con un altro vescovo su questa mia idea, ho promosso un pellegrinaggio a un luogo storico e sacro nella diocesi che ha fatto ricordare la lunga storia dell’incarnazione del Vangelo nel nostro Paese. Lì ho potuto esprimere, in un momento di preghiera pubblica, l’orrore per quanto è accaduto nei tempi recenti nella Chiesa, e chiedere perdono a Dio e alle persone ferite. Allo stesso tempo, ho messo in rilievo la chiamata che ora ci arriva in Lui Risorto a rinnovare, o meglio, a riparare la Chiesa e a riaccendere la speranza.

Dico la verità, nominare il male e il danno che la Chiesa ha causato non è stato facile per me. L’evento, però, ha avuto un riscontro positivo e ha attirato l’attenzione dei mass media. Mi ha colpito anche una frase di papa Francesco nell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate: «L’umiltà può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni» (n. 118). Certo, Dio non vuole “umiliarci”. Dio ci ama immensamente. Ma, indubbiamente, ci sono circostanze dove siamo “umiliati”, magari criticati pubblicamente o in modo irrazionale. Ma tutto serve. Queste umiliazioni ci rendono più umili.

Nei suoi 9 anni da vescovo ha incontrato sia chi ha commesso l’abuso sessuale sia chi lo ha subìto. Cosa sente quando pensa a tutto questo travaglio?
Incontrare un uomo adulto che piange come un bambino, ricordando l’abuso subito, mi stringe il cuore. Le parole mancano. Da una parte sento un grande rammarico per quanto è successo nel passato, ma poi vedo anche come non è mai semplice rapportarmi oggi con chi ha sofferto l’abuso e con chi lo ha commesso.
Ricordo che, quando sono usciti i rapporti delle commissioni d’inchiesta promosse dallo Stato, da bravo teologo pensavo di scrivere un bell’articolo per aiutare tutti a inquadrare la situazione con delle categorie interpretative. Ma, poi, ho capito che non si trattava tanto di voler inquadrare queste situazioni dolorose in un pacchetto intellettuale ben confezionato, ma piuttosto lasciare penetrare in me il grido di dolore. Non so quanto io sia riuscito a farlo. Ma una cosa diventa chiara per me. Da una parte, alla luce di quanto ci propone papa Francesco, sento forte il desiderio di uscire verso le periferie e incontrare i migranti, i senza tetto, i prigionieri, i drogati… Come si usa dire oggi, vorrei vivere l’opzione per i poveri.

Ma dall’altra parte, sempre più negli anni recenti mi rendo conto che uscire verso i poveri potrebbe essere per me qualcosa di chic – perdonatemi l’espressione –, che mi dà una certa consolazione come uno bravo nel dare, nell’aiutare ecc. Invece, con il tema dell’abuso nella Chiesa, mi trovo “coinvolto”, coperto io stesso dalla vergogna, conscio che sono io dentro questa periferia esistenziale dolorosissima, che mi rende ferito con i feriti, debole e perplesso. È vero che l’impegno in questo campo sarà nascosto per lo più e quest’opzione non mi guadagna, diciamo, grande stima pubblica, ma è ciò che Dio vuole da me oggi.

L’epoca di grande cambiamento che viviamo ci potrebbe portare a sognare, a guardare lontano o potrebbe anche suscitare in noi delle incertezze. Cosa le dà speranza?
In primo luogo la fede stessa. Guardando la situazione ecclesiale, non posso illudermi e parlare delle cose con un ottimismo semplicemente umano e superficiale. Le difficoltà ci sono e sono reali. Ma la fede in Dio che è amore, mi fa pensare: «Dio ha un piano ed è importante crederci e non lasciarti scoraggiare dalle difficoltà». Ricordo come Aldo Stedile, uno dei primi compagni di Chiara Lubich, parlando con un gruppo di noi giovani sacerdoti a Roma, ci ha spiegato come è importante fissare bene il primo bottone della camicia o della talare, se no tutti gli altri bottoni non si infilano bene! Mi ha colpito l’immagine. Credere all’amore è per così dire “il primo bottone” nella vita di fede cristiana.

Un secondo motivo di speranza lo trovo nella storia della Chiesa. Basta vedere la storia del popolo d’Israele: quanti momenti drammatici ha vissuto. Poi leggiamo di esperienze scure in tutte le nostre chiese nella vita dei santi e negli ordini religiosi e movimenti. Ricordiamo che la congregazione dei gesuiti è arrivata al punto addirittura di essere soppressa dal papa, per quasi 40 anni. Ma dopo c’è stata una nuova fioritura e oggi abbiamo un papa gesuita.
In Irlanda arrivano tanti turisti e fanno visita ai posti storici come gli antichi monasteri e le cattedrali antiche che ora sono solo ruderi. Guardare questi ruderi mi fa pensare due cose: che la configurazione della Chiesa cambia; che la Chiesa vive momenti di grande fioritura e di apparente crollo.

Mi piace la frase del cardinale inglese, John Henry Newman: «La Chiesa sta sempre morendo e sempre risorgendo». Magari in qualche punto in Africa in questo momento la Chiesa vive una grande vitalità; in altri continenti questo è un momento di scoraggiamento. Ma è la stessa Chiesa. Nonostante tutto, la Chiesa cammina. Vediamo, per esempio, la cultura della sinodalità che va avanti molto di più rispetto a 50 anni fa. E possiamo anche dire, sebbene sia doloroso per noi, che il fatto che la Chiesa affronti i suoi difetti, limiti e abusi, è un passo avanti. Ogni generazione ha la sua croce da vivere.

—-

Brendan Leahy

1960: nato a Dublino
1983: laureato in Giurisprudenza
2013: nominato vescovo della Diocesi di Limerick, Irlanda
2015: nominato co-responsabile del Foro ecumenico delle Chiese in Irlanda
2016: ha aperto un Sinodo diocesano nella Diocesi di Limerick.
2021: nominato co-responsabile della segreteria per il cammino sinodale della Chiesa cattolica in Irlanda.
2022: nominato membro della Congregazione per l’educazione cattolica.

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons