Dialogando con Agnese Pini

Agnese Pini è la giovane direttrice del quotidiano La Nazione, la prima donna a ricoprire questo incarico. La rivista Forbes l’ha inserita fra le 100 italiane di successo dell'anno 2021.
Agnese Pini; foto Mori - Moggi/New Press Photo

Lei è una direttrice molto giovane, rispetto alla media dei suoi colleghi. In che modo la collaborazione tra redattori anziani e giovani può essere fruttuosa in un giornale?
Il problema generazionale nell’informazione non è soltanto dalla parte dei fruitori, quindi dei lettori, ma anche dalla parte di chi lavora all’interno delle redazioni. La crisi economica ha comportato ingressi più complicati per i giovani, oltre a contratti inadeguati e stipendi molto bassi, non solo nell’editoria. Una discriminazione su base anagrafica e non professionale. La colpa è di un mercato che fa fatica a stare in piedi. La conseguenza di tutto ciò è un impoverimento complessivo delle redazioni, dovuto alla diminuzione dell’interazione generazionale. Creare armonia nei gruppi di lavoro è più difficile di una volta, perché ci sono colleghi discriminati solo perché più giovani. Invece i giornali si fanno bene, culturalmente, quando c’è scambio, all’interno della redazione, tra il giovane, orientato alle nuove tecnologie e alle nuove forme di comunicazione, e il profilo senior, fondamentale perché i giornali sono fatti anche di tradizione e memoria. Infatti nel gruppo editoriale della Nazione stiamo per assumere X giovani.

È vero che le generazioni più giovani non si informano o hanno solo un modo diverso di farlo?
Vorrei sfatare un mito: non è vero che i giovani non si informano. Lo fanno in modo diverso rispetto a dieci anni fa. Sono cambiati i supporti che veicolano l’attualità. Addirittura credo che i giovani di oggi si informino più di quanto non facessero quelli del passato, perché hanno accesso immediato e gratuito alle fonti online. Bisogna distinguere chiaramente tra la crisi della carta stampata e quella dell’informazione in generale. La vera informazione di massa si è stata raggiunta con gli smartphone, internet e i social network. Questo ha portato alla crisi della carta stampata che per molto tempo ha avuto il monopolio dell’informazione.

Lei ha scritto che «un giornale di carta non offre solo un aggregato di notizie, ma una visione del mondo»…
La mia riflessione nasce dalla domanda su quale differenza ci sia tra un sito web d’informazione e un quotidiano cartaceo. Su internet abbiamo un’informazione orizzontale, che riporta tutte le notizie che escono nel corso della giornata. Il giornale di carta è un’altra cosa: c’è una selezione e una gerarchia delle notizie, definite da professionisti. Se a un utente interessa la crisi afghana, scriverà questa parola chiave nel motore di ricerca online: in questo modo può costruirsi da solo la propria visione parziale del mondo. L’utente di oggi è più libero di decidere a cosa dare importanza e a cosa no. Prima le priorità venivano indotte dall’alto, da chi costruiva un giornale o decideva la programmazione di un canale televisivo. Ma si trattava di professionisti, che sapevano fare scelte oculate e dopo lunghe discussioni tra di loro. È difficile che una persona riesca da sola a crearsi una consapevolezza, una visione complessiva (e non parziale) di un argomento. Sarà interessante vedere come diventeremo da qui a 30 anni.

Lei ha detto anche che «schierarsi è positivo. Per essere credibili bisogna far sapere da che parte si sta. L’importante è rimanere fedeli al patto con i lettori. Stare vicino ai lettori creando comunità».
Arrivo a dire che per i giornalisti schierarsi è un dovere. Perché il patto con i lettori è alla base di tutto. Chi compra La Nazione conosce già il taglio e il tipo di notizie che troverà sul giornale. Il mio compito da direttrice è quello di non deludere le aspettative. Schierarsi è l’unico modo per creare una comunità, che si identifica sempre su un’idea condivisa. Il web è più dispersivo e si rischia di perdere questo senso di unione tra i lettori. Ma non è detto che sulla rete non ci si riesca in altro modo. Sui social di un giornale, per esempio, è più facile fare comunità perché c’è dietro il quotidiano cartaceo che ha già una sua comunità, con una visione precisa del mondo.

«Per avere più fraternità, per abbattere le distanze, come quelle tra generazioni e tra ricchi e poveri», voi de La Nazione avete dato vita a Luce!, un canale digitale dove parlate di inclusione e diversità…
Sono temi di moda, ma io volevo fare un’operazione culturale che partisse proprio dai giornalisti, dai miei colleghi. Affrontare i temi dell’inclusione è importante, ma non sempre in redazione si ha il tempo di farlo. Penso che un sito apposito dove i giornalisti de La Nazione possano scrivere di diversità e dialogo, anche se non è la loro competenza specifica, sia uno strumento di crescita professionale e umana, oltre che un luogo di condivisione per chi ci vorrà leggere. Anche perché così impariamo a cambiare il nostro linguaggio. C’è molto entusiasmo nel trattare questi argomenti.

Il giornalismo locale a volte viene definito di serie B… Ma è davvero così o è ancora uno dei pochi modi di fare cronaca attingendo dalla fonte diretta di una notizia?
È una delle forme più autentiche di fare il mestiere. Con la nascita del giornalismo locale, i cittadini si sono sentiti per la prima volta protagonisti. Le pagine dei quotidiani nazionali erano riservate ai politici, ai grandi capi d’azienda e alle star: la cronaca locale ha permesso invece a tutti di ritrovare la propria foto sul quotidiano. Le testate che operano sul territorio hanno in qualche modo anticipato il potere editoriale diffuso, tipico oggi delle piattaforme social.

La precarietà e le difficoltà economiche che caratterizzano il settore dell’informazione, costringono a fare meno inchieste, è più complicato verificare le notizie, per una mancanza di risorse…
La professione giornalistica è cambiata. Non solo per un problema economico, ma anche per la rivoluzione tecnologica che ha consentito agli operatori dell’informazione di avere nuovi strumenti. Ad esempio, non è più necessario recarsi in loco, per un’intervista o per scattare una foto, abbattendo i costi di trasferta. Una verità che si discosta dalla visione romantica della professione, del redattore che gira la città in cerca di notizie, consumando le suole delle scarpe. Per quanto riguarda la possibilità di fare inchieste, non so se oggi se ne possano fare meno di un tempo, ma credo che la capacità dei media di controllare il potere sia una questione più che altro quantitativa. Oggi ci sono meno giornali di una volta. Mi spiego: se il sindaco di un piccolo comune ruba e c’è solo un giornale che controlla il suo operato, è più facile che lo possa fare impunemente. Per via del Covid, molte piccole redazioni, radio e televisioni locali, siti web d’informazione, hanno purtroppo dovuto chiudere o quanto meno ridimensionarsi, con la conseguente diminuzione del servizio di controllo del potere.

A proposito di potere, prima di Internet i messaggi di politici, aziende e associazioni dovevano passare attraverso la macchina da scrivere di un giornalista. Adesso non è più così. Quali conseguenze ha questo nell’era della disintermediazione?
La domanda è giusta, ma ha un fondamento sbagliato, perché l’informazione è una cosa diversa da un politico che usa i social network come strumento di comunicazione politica. L’informazione è mediazione per definizione e tutto ciò che non è mediato non può essere considerato informazione. Quando Mussolini faceva i comizi dal balcone di Palazzo Venezia non stava informando i cittadini sul fatto che saremmo andati in guerra, stava facendo propaganda. Un politico di oggi che usa i social non fa informazione, fa quello che prima si faceva dai balconi. Non scambiamo la comunicazione sui social con l’informazione. Le dittature infatti non hanno bisogno di giornalisti, ma di comunicatori. Senza il giornalismo, organismo terzo che sta media tra comunicatore e pubblico, la democrazia semplicemente non esiste. Per questo trovo superflui i dibattiti sul finanziamento pubblico ai giornali.

Donna, giovane, cattolica, direttrice de La Nazione. Chi è Agnese Pini?
Sto pensando a come il fatto di essere cattolica si leghi a tutto il resto: donna, giovane, direttrice. Penso che si possa riassumere così: io faccio ciò che sono. Oggi credo di avere questa grazia, questo privilegio. Ma tante volte in passato mi sono trovata nella condizione di non potermi esprimere liberamente, proprio perché questi due piani non erano allineati. Un disallineamento che comporta frustrazione, noia, insofferenza e invidia. L’unico modo di sentirsi pieni nella propria vita è fare ciò che si è. In questo momento ci riesco. E questo per me è il dono più grande. Spero di mantenerlo, perché è brutto vivere senza. Potersi sentire compresi anche nel ruolo che si svolge, credo sia un insegnamento evangelico molto importante. Una grande grazia.

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2001 – Decide di fare la giornalista
2007 – Primo giorno in redazione alla Nazione di Carrara
2009 – Scuola di giornalismo (Tobagi) a Milano
2019 – Nominata direttrice del quotidiano La Nazione

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