Democrazia alla prova dei referendum

Dall’autonomia differenziata alla legge sulla cittadinanza, il sistema digitale ha permesso di raggiungere il mezzo milione di firme necessarie per proporre i quesiti referendari. Corsa contro il tempo entro il 30 settembre per la proposta di abrogazione della legge elettorale, il cardine della democrazia in crisi di partecipazione
Seggio elettorale Archivio ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

La pratica del referendum è finora una delle forme più utilizzate di democrazia diretta possibile in Italia che deve passare un giudizio preventivo di ammissibilità, prima di un ufficio tecnico e poi della Corte costituzionale, per arrivare a convocare le urne.
Tranne quello confermativo o costituzionale, si richiede per la validità del referendum il raggiungimento del quorum dei votanti, ossia la maggioranza degli aventi diritto più uno. Esiste perciò la possibilità, più volte adottata da forze politiche e sociali, di farlo fallire invitando gli elettori ad astenersi dal voto.
Non è previsto, nel nostro Paese, il referendum propositivo ma solo quello abrogativo con rigorosi limiti sulle materie oggetto della consultazione secondo l’articolo 75 della Costituzione: «leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali».

Pur con tutti questi limiti, le competizioni referendarie hanno avuto una notevole incidenza sul piano culturale e degli equilibri di potere politico, a partire dal primo referendum proposto nel 1974 per abrogare la legge sul divorzio.
Si discute da tempo sulla congruità del limite delle 500 mila firme definite come requisito minimo da certificare per avviare la procedura di un referendum da parte dei cittadini.
Esperti nella pratica del referendum sono da sempre i radicali, che nonostante la forte influenza delle loro tesi nella società italiana hanno raccolto percentuali minime nelle elezioni politiche optando per la loro presenza trasversale nei partiti politici. Di certo andare a raccogliere mezzo milione di firme nelle piazze è un’impresa difficile nonostante il gran numero di potenziali elettori che oscilla sui 48 milioni di cittadini, ma l’impresa è raggiungibile senza problemi se intervengono grandi organizzazioni sociali e gli stessi partiti che sono molto attenti a non esporsi a pericolosi effetti boomerang.

La vera rivoluzione recente in tema di referendum è stata la possibilità di raccogliere le firme anche sul web usando i codici SPID, CIE o CNS adottati per i rapporti certificati con la Pubblica amministrazione. Una forma di democrazia digitale che ha fatto la differenza con due proposte di referendum che hanno superato il limite delle firme in tempi brevi.

Il primo è quello sull’abrogazione della legge Calderoli sull’autonomia differenziata, che secondo i proponenti va eliminata perché destinata a spaccare l’Italia aumentando i già gravi divari territoriali e le diseguaglianze sociali. Una tesi fortemente contrastata dalla Lega che di questa legge ha fatto un cavallo di battaglia. I proponenti, praticamente i partiti di opposizione, la Cgil con tante altre associazioni, hanno depositato in Cassazione quasi un milione e 300 mila firme (554 mila raccolte online e 737 mila su modulo cartaceo). Una grande mobilitazione che dimostra la volontà di fare della questione complessa ma decisiva una battaglia politica in grado di compromettere il governo Meloni.

È invece sorprendente lo sprint finale dalla raccolta delle firme on line che ha permesso di superare il limite delle 500 mila adesione al referendum sul diritto di cittadinanza per istituire in questa maniera lo ius scholae. Con la modifica dell’articolo 9 della legge 91 del 1992 si arriverebbe a portare da 10 a 5 il numero di anni di residenza legale in Italia necessari per poter richiedere la domanda di cittadinanza italiana, che in tal modo verrebbe trasmessa in maniera automatica anche ai figli minorenni.

Come fa notare Gianfranco Schiavone, noto esperto di legge sull’immigrazione, in pratica si tratterebbe di tornare alla normativa vigente nel 1912 mentre «il termine di 5 anni di soggiorno legale ininterrotto per la concessione della cittadinanza ai cittadini di Stati non appartenenti alla UE è oggi già previsto in Francia, Germania, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Portogallo, Lussemburgo, Svezia».

L’apparente piccola variazione della legge in vigore produrrebbe un effetto di grande impatto, perché riguarda circa 2 milioni e 300 mila stranieri residenti in Italia. Ovviamente, fa presente Schiavone, «la procedura per ottenere la cittadinanza rimarrà comunque di tipo concessorio e lo straniero maggiorenne per ottenerla dovrà dimostrare un forte radicamento sociale, una stabilità economica ed essere incensurato dal punto di vista penale».

La riforma era possibile con i governi di centro sinistra, che hanno preferito tuttavia sorvolare su questa scelta annusando la crescita del consenso politico verso le posizioni più restrittive sostenute con convinzione dal centro destra, anche se Antonio Tajani di Forza Italia ha espresso interesse verso lo ius scholae. Calenda di Azione non ha aderito alla richiesta di referendum, che non è stato firmato neanche da Giuseppe Conte del M5S, a conferma dei dubbi che persistono anche nell’opposizione parlamentare.

Chi si può intestare la vittoria nel raggiungimento dell’obiettivo delle 500 mila firme è Riccardo Magi, eletto con il Pd in quota +Europa, la frazione radicale di Emma Bonino, ma la grande mobilitazione è arrivata dal mondo dell’associazionismo, in buona parte cattolico. La stessa Cei si è espressa ufficialmente a favore dello ius scholae tramite il vescovo Baturi, segretario generale della Conferenza episcopale.

È facilmente intuibile l’aspettativa o il timore per l’immissione in massa nel diritto di cittadinanza da parte di una popolazione che accede in tal modo a quel diritto di voto che molti italiani hanno tuttavia deciso di non esercitare, evidenziando la crisi della partecipazione democratica del nostro Paese.

Esiste un problema serio di carenza di rappresentanza da parte di fasce crescente di elettori di fronte a leggi elettorali che hanno man mano consegnato alle segreterie di partito la decisione sulle candidature. Dal referendum Segni del 1991 si è affermato in Italia, contemporaneamente al crollo per via giudiziaria della prima Repubblica, la propensione verso il sistema elettorale maggioritario in nome della governabilità.

È stata in tal modo agevolato un sistema che premia le coalizioni compattando, sotto lo stesso tetto, tradizioni e visioni politiche differenti in ragione del risultato elettorale da raggiungere. Ciò ha comportato la riproduzione delle formazioni politiche dopo il voto con una serie di sigle politiche minori, anche di carattere personale, che sono andate a far parte dei gruppi misti del Parlamento.

Progressivamente molti elettori non hanno voluto esprimere il loro consenso davanti alla divisione tra schieramenti binari di destra o sinistra. L’esempio più vistoso si è avuto nelle ultime elezioni con il fallimento degli accordi separati da parte del Pd di Letta con Verdi e Sinistra da una parte e Azione con +Europa dall’altra.

Il premio elettorale della maggioranza e il disincentivo per le liste singole hanno indotto molti dei cittadini a confrontarsi con il paradosso del “voto utile”, che assegna un peso diverso alla scelta del singolo elettore.

Il sistema proporzionale adottato con l’avvento della Repubblica dopo il fascismo rispondeva ad una rappresentanza più vasta possibile, assicurata anche ai nostalgici del regime, dopo la compromissione delle libertà di espressione politica, con maggioranze da costituire dopo il risultato elettorale. La crisi di quel sistema è stata all’origine del cambiamento della legge elettorale che ha registrato numerose versioni corrette ed emendare dalla Corte costituzionale, fino a quella in vigore, il cosiddetto Rosatellum.

La legge approvata nel 2017 porta il nome di un deputato del Pd, Ettore Rosato, poi aderente ad altri partiti; ma non soddisfa, almeno a parole, quasi tutti i partiti. Di fatto nessuno di loro sembra sostenere la proposta referendaria, anch’essa sottoposta alla raccolta delle firme entro il 30 settembre, che punta ad abrogare in alcune parti significative il Rosatellum partendo dalla convinzione che «il Parlamento di nominati dagli apparati di partito non ci rappresenta e rivendichiamo il nostro diritto costituzionale di scegliere col voto i nostri rappresentanti parlamentari».

Lo afferma il comitato promotore “Io voglio scegliere” che rappresenta il frutto del lavoro dell’avvocato Felice Besostri, un giurista di solida tradizione socialista che ha sostenuto e vinto molti ricorsi contro leggi elettorali dichiarate parzialmente incostituzionali dalla stessa Corte.

Per entrare nel dettaglio dei 4 quesiti referendari proposti si può andare sul sito del Comitato dove è possibile firmare con modalità elettronica.
Una corsa contro il tempo per mettere in discussione una legge elettorale che costituisce un serio problema per la democrazia.

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