Demagogia e democrazia: il potere dei simboli

La lectio magistralis di Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale Democrazia

Demagogia e democrazia. Di tutto questo e molto altro si è parlato alla Biennale Democrazia che è in svolgimento fino a domenica a Torino, nella seguitissima lectio magistralis di Gustavo Zagrebelsky.

Il costituzionalista di fama europea e presidente della Biennale Democrazia, ha tracciato un excursus storico sul potere di alcuni segni, che non ha stentato di definire “diabolico”, per puntare il dito su un blocco di potere economico e politico senza valori che caratterizza la nostra epoca con un senso delle istituzioni che è “ormai diventato un ferrovecchio di cui fare a meno”.

 

Zagrebelsky è partito dall’analisi della visione classica della struttura delle nostre società, costruite su tre funzioni, riguardanti rispettivamente la politica, l’economia e la simbologia.

« Se tutte e tre le funzioni sono necessarie, – dice il presidente della Biennale – quella simbolica è però l’unica che dia un senso, un significato d’insieme alle altre due, che ci dica perché stiamo e vogliamo stare insieme. La teoria dice che nelle società bene organizzate, cioè equilibrate, le tre funzioni sono reciprocamente indipendenti; una sorta di tripartizione dei poteri sociali. La storia ci dice invece che, essendo in questione il potere, ciascuna delle tre tende a imporsi sulle altre due e ad asservirle. Si potrebbe tratteggiare la storia delle nostre società come un continuo spostamento del baricentro da uno all’altro, all’altro ancora e così distinguerle a seconda del predominio del politico, dell’economico o del simbolico. Il potere simbolico, tuttavia, di tutti è il più sottile e pervasivo, ma fra tutti il più debole ».

 

Chi sono dunque i padroni del mondo simbolico nel quale oggi viviamo?

« Se ci chiediamo – continua Zagrebelsky – chi muove le parole, le immagini, le cose che esprimono simbolicamente i valori, le aspirazioni, in genere le idee che plasmano le nostre società, andremmo probabilmente a cercarli in quel blocco di potere economico e politico chiamato lobbicrazia. Un’epoca definita come quella del finanz-capitalismo e del grande saccheggio, del valore estraibile dagli esseri umani e dagli ecosistemi. È in quella compenetrazione d’interessi che nasce la commistione di schemi di pensiero, valori e modelli di comportamento, alla quale rispondono centri di ricerca, accademie, opinionisti ai quali la visibilità e il successo sono assicurati dalla misura della loro consonanza. L’influenza sul pubblico è poi assicurata dall’accesso a strumenti di diffusione capillari e omologanti. La funzione simbolica diventa così una funzione passiva e servente. I simboli, strumentalizzati, imbrogliano circa il loro senso. Promettono il bene di chi li consuma e invece promuovono il bene di chi li produce. Si traducono in propaganda e in pubblicità. Il loro ideale è la società come superficie tutta liscia su cui scorrere liberamente ».

 

Ed è in questa situazione che si insinua la figura del demagogo, che si impadronisce dei simboli inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze. Il simbolo così diventa strumento di trasformazione degli uomini in masse fanatizzate, si va dalla democrazia al totalitarismo.

« Lo strumento del demagogo – continua – opera la più ardita delle identificazioni politiche: il popolo nel suo capo e il capo nel suo popolo. Il capo è organo del popolo e il popolo è organo del capo. Sono la stessa cosa. In questa identificazione, viene a mancare lo spazio per simboli ”terzi” perché il capo stesso è il simbolo: il segno di tutti valori, le aspettative, le speranze convergenti del suo popolo. I capi si sono cioè trasformati, direttamente, in istituzione e legge. Il simbolo si confonde col corpo e viceversa. Così, tutte le distinzioni che vengono da una lunga storia del diritto pubblico tra persona privata e carica pubblica svaniscono.

Le regole sono impicci, le costituzioni gabbie, la legalità angheria, il senso delle istituzioni,  che distingue l’etica pubblica dalla morale privata, diventa un ferrovecchio su cui si può ironizzare. Le dimore personali sono equiparate ai palazzi delle istituzioni, anzi sono interscambiabili. La fortune private sono intoccabili come se fossero pubbliche e quelle pubbliche sono disponibili come se fossero private. Queste e altre confusioni si giustificano non come privilegio del capo, ma come diritto del popolo, tanto più in quanto il primo sia stato eletto dal secondo e l’elezione sia concepita come investitura salvifica ».

Una diabolica trasformazione, un’estrema corruzione diabolica dice Zagrebelsky, che deriva dall’identificazione simbolica del capo con il popolo e del popolo con il capo, che si traduce nell’esaltazione del potere personificato, che è l’esatto contrario di ciò che ci si attende dai simboli politici: essere fattore d’unificazione impersonale, cioè nemico d’ogni demagogia. Ogni riferimento dello studioso è al passato, citando i totalitarismi di destra e di sinistra, ma la visione di Zagrebelsky può essere ricomposta ancora oggi.

 « È un rischio mortale per la società stessa – conclude Zagrebelsky, – la dissoluzione del corpo fisico del capo finisce così per coincidere con la dissoluzione del corpo sociale, cioè con instabilità, disordini, lotte fratricide. Ecco il prezzo che pagano i popoli quando si mettono nelle mani di qualcuno dicendogli: “ vai, noi ci riconosciamo in te, perché tu ti riconosci in noi” ».

 

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