De Sica 40 anni dopo

Il ricordo del grande attore e regista, maestro del Neorealismo, quasi duecento film tra quelli interpretati e quelli diretti. Pellicole cariche di poesia e passione umana che hanno cambiato il cinema per sempre
De Sica

Quarant'anni fa Vittorio De Sica ci lasciava. Se ne andava il maestro del Neorealismo, l'inventore (con Visconti e Rossellini) di un cinema che non inganna, ma svela. Moriva un regista quattro volte premio Oscar, l'autore di capolavori immortali come Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951) e Umberto D. (1952). Ovvero, un pugno di pellicole strette in una manciata di anni, così miracolosamente cariche di poesia e passione umana, da cambiare il cinema per sempre. Quei film commuovono oggi come allora, in Italia e nel mondo. Mai l'attenzione di De Sica per gli ultimi, il suo abbraccio alla loro sofferenza, smetteranno di emozionare le persone. Mai le potenti fotografie di un'Italia faticosamente in cerca di normalità dopo la guerra, rimarranno solamente istantanee di quell’epoca: le sue storie vanno oltre, la sua lezione non invecchia mai, si fa ogni giorno più classica e preziosa. 

Il 13 novembre del '74, il grande narratore si spegneva. Aveva 73 anni e quasi duecento film alle spalle: una quarantina quelli diretti, tutti gli altri interpretati. Prima di incontrare il cinema fu attore e regista nel teatro di varietà degli anni '20 e '30, ma già nel '32, cantando Parlami d'amore Mariù nel film Gli uomini che mascalzoni di Mario Camerini, quel ragazzo magro e delicato stava diventando il giovane divo dei “telefoni bianchi”. Continuò a sorridere e ad innamorarsi in commedie garbate fino alla fine del decennio, ma l’incontro con Cesare Zavattini contribuì alla decisione di passare alla regìa. Si conobbero nel ‘35, per il film Darò un milione dello stesso Camerini, e fu l’inizio di uno dei più fertili e duraturi sodalizi artistici della storia del cinema. De Sica esordì dietro la macchina da presa nel 1939. Il film era Rose scarlatte, il primo passo di un progressivo allontanamento del regista dalla vuota spensieratezza delle commedie edulcorate del fascismo. Già con Teresa Venerdì (1941), egli mostra un’attenzione alla realtà che si farà ben più evidente con I bambini ci guardano (1943), dove le atmosfere magiche, “alla Camerini”, si sono ormai dissolte davanti all’urgenza del vero. Gli occhi di un bambino svelano che l’armonia e l’ordine raccontati per anni, erano, in fondo, soltanto apparenza.La mano di Zavattini è sempre più evidente: è lui l’ispiratore del miglior De Sica, quello che va dal ‘43 al ’54. Undici anni memorabili, non solo per gli Oscar di Sciuscià e Ladri di biciclette. Una stagione virtualmente chiusa da L’oro di Napoli (1954), una sorta di ritorno desichiano a quella commedia in cui era “nato”, ormai profondamente modificata da lui stesso: resa più credibile, drammatica e importante dal passaggio del “suo” Neorealismo. Commedie sporche di realtà, con personaggi e situazioni raccolte dalla vita, sono Il boom (1963), Matrimonio all’italiana (1964) e Ieri, oggi e domani (1963): il film che gli vale il terzo Oscar.

C’è poi il De Sica prestato al cinema degli altri. La sua vena comica e brillante, il suo enorme talento d’attore, sono entrati spesso in film di altri registi, a volte opere importanti come Pane amore e fantasia di Luigi Comencini (1953) o Il generale della Rovere di Roberto Rossellini (1959). Altre volte film mediocri, riempiti solo dal sorriso e dalla inconfondibile giocosità del grande Vittorio De Sica, dalle sue deliziose pennellate. Ma le grandi vette post belliche si sono fatte col tempo sempre più lontane, ed il suo cinema non è stato mai più commovente come davanti a una realtà che lo era altrettanto. Ha continuato a dirigere magistralmente grandi attori (la Loren de La ciociara nel 1960) e a realizzare opere importanti come Il giardino dei Finzi Contini (1970), che gli valse l’ultimo Oscar. Ma il regista di cui si sente la mancanza, quello a cui il cinema stesso ha reso immediatamente omaggio (a nemmeno due mesi dalla morte), è quello inarrivabile dell’immediato dopoguerra: Ettore Scola, nel dicembre del ’74, dedicava “alla memoria di Vittorio De Sica” il suo film più bello, C'eravamo tanto amati. Nel racconto di trent’anni di Storia italiana, il regista inseriva un lungo e caloroso abbraccio al gigantesco uomo di spettacolo che è stato De Sica. Omaggiava, insieme all’autore, il film che più di tutti (insieme a Umberto D.) ne rappresenta la grandezza: Ladri di biciclette. In C’eravamo tanto amati, De Sica interpreta se stesso attraverso un filmato di repertorio. È su un palco e spiega a dei bambini come riuscì a far piangere il piccolo interprete di Ladri di biciclette. In quel frammento ci sono il suo sorriso dolce e delicato, la tenerezza con cui ha abbracciato il dolore dei suoi personaggi più drammatici. Quelli che tra cento o mille anni, saranno ancora credibili e attuali, che continueranno, senza invecchiare mai, a farci stringere il cuore.

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