De Pisis Ricordi di bellezza

Si potrebbero accettare solo con qualche riserva i ricercati riflessi delle bottiglie, delle conchiglie, dei pesci, eppure la pittura di Filippo De Pisis va oltre il compiacimento un po’ kitsch che accompagna solitamente l’insistenza di tutte quelle lumeggiature. Le stesse pennellate di luce si accendono sui corpi, sui palazzi, sulle nuvole, ma non è un mondo caricato e leccato; sembra piuttosto brillare e risplendere in modo inusuale. L’occhio del pittore fa luccicare anche i brani più quotidiani e i generi più desueti: paesaggi e nature morte, soggetti triti e ritriti che non hanno il distacco onirico tipico della metafisica, a cui lo stesso De Pisis aderisce. I suoi quadri sembrano piuttosto muovere in un’altra direzione: non una realtà asciutta e allucinata ma un mondo umido di pittura, dove la bellezza potenziale racchiusa in ogni cosa diventa manifesta e si mostra in un’epifania di luci e di colori. Ciò che non sembra degno di luce si accende di inaspettati barbagli di bellezza. Anche il brutto diventa bello, anche i pesci marci e il fagiano senza vita appeso al muro; e il bello diventa più bello: i gamberetti, i limoni, gli occhi del ragazzo… Col passare degli anni, la sensibilità del pittore si fa esclusiva nei confronti di questo surplus di luce, di bellezza e di pittura. I corpi opachi diventano via via slavati, fino a lasciare intravedere la tela; resistono invece le lumeggiature che si adagiano sui profili delle cose, quasi che tutta la materia si raggrumasse in quei riflessi. La luce si rapprende in pennellate dense e veloci, e presto del soggetto restano solo luci ed ombre, scritte più che dipinte, in un’unica stenografia di colore. La natura morta non è più solo un genere o un motivo; la vanitas diventa il modus vivendi di questa pittura. Tutto è vanità, tutto passa e, mentre le cose perdono lenta-mente la loro materia, il pittore tenta di afferrare quell’attimo di vita trattenendone solo la bellezza e l’eleganza. Delle cose resta alla fine l’estratto intimo, rappreso in rapide e nervose pennellate, mentre le cose stesse svaniscono. Non più quindi vedute e nature morte, ma piuttosto paesaggi di ricordi e tavoli allestiti come banchetti di malinconica bellezza. Nelle ultime tele le pennellate sembrano intrecciare un’unica volontà: trattenere un momento di bellezza destinato a passare. È così che il colore trattiene il dolore e la sofferenza prende le sfumature della dolcezza. Ripercorrendo alla fine le sale della mostra, ogni quadro appare come la struggente copertina di un diario intimo che raccoglie e custodisce nel tempo quegli attimi di pura bellezza.

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