De Gasperi 50 anni dopo

Per noi giovani della appena nata Democrazia cristiana era come un padre della patria, un secondo Cavour. Tale lo vedevamo specialmente dopo alcuni gesti che riempirono l’immediato dopoguerra: il dirottare verso l’Italia affamata navi statunitensi piene di grano, il discorso di assoluta dignità pronunciato a Parigi, di fronte ai vincitori, in difesa di un popolo sconfitto, il coraggio e l’equilibrio con cui osò estromettere dal governo l’onnipresente forza del comunismo di Togliatti, l’avvio della ricostruzione sociale, economica, morale di una nazione distrutta e divisa. Un gigante con idee chiare e cuore robusto. Pochi anni dopo ebbi ripetute occasioni di seguirlo in diretta con i miei occhi e le mie orecchie quando entrai a far parte del Consiglio nazionale della Democrazia cristiana (1952) e poi della Camera dei deputati (1953). Qualche brevissimo flash. Come presidente del Consiglio dei ministri presiedeva anche il Consiglio nazionale del nostro partito. Non amava perder tempo ed era essenziale anche qui. Ricordo un suo richiamo con scampanellata, a sollecitare silenzio e attenzione: Non fare onore al tuo nome! (il richiamato era l’on. Rumor). Ed una affermazione solenne per uscire da una discussione piena di incertezze: I partiti si dirigono, non si consigliano!. Durante la campagna elettorale del 1953 ero sul palco dietro di lui ad un suo comizio sulla piazza gremita di Ascoli Piceno. Campagna arroventata di accuse, anche personali contro di lui (specialmente da Togliatti e dai neofascisti): come rispondeva? Ascoltai un discorso sereno, asciutto, con soli inviti a ragionare. Non insultava i suoi accusatori, non blandiva i sostenitori plaudenti: richiamava quelli alla loro responsabilità, esortava questi ad impegnarsi ciascuno nel proprio ruolo sociale senza temere i sacrifici necessari e a guardare con ragionevole fiducia l’avvenire da lui prospettato. Quando entrai a Montecitorio, mi toccò assistere al suo tramonto. Fu per me il dolore di un figlio. De Gasperi aveva vinto le elezioni, ma solo a metà: non era scattato il premio maggioritario, e gli alleati a cominciare da Saragat non appoggiarono il suo tentativo di presiedere ancora un governo. Vidi un De Gasperi assolutamente dignitoso anche nella sconfitta: nessuna parola di risentimento. Profuse tutto il suo impegno come segretario del partito continuando l’azione anche per l’Europa. Proprio qui lo colpì l’ultimo dolore: il no del primo ministro francese, MandèsFrance, alla Ced (Comunità europea di difesa), che ci dicemmo tutti tra noi gli accelerò l’aggravarsi del male che lo stava consumando. Un deputato comunista mi aveva chiesto perché De Gasperi non sorridesse mai. Gli avevo risposto facendogli notare che questo trentino era un uomo austero ed un politico che viveva l’impegno pubblico con un drammatico senso di responsabilità davanti agli uomini e davanti a Dio. Ancora più drammatico era per lui il sentirsi responsabile delle sorti di un intero popolo e dell’unità europea. Mi piace ricordare la sua figura come si staglia da una lettera autografa a Igino Giordani del ’52, di cui riporto un brano: …l’umana realtà dei partiti, la quale realtà è di tale fatta che spesso sento la tentazione di abbandonare ogni ufficio nella speranza che un gesto di rinuncia possa dare esempio e soddisfazione; ma sempre mi trattiene lo stesso pensiero dell’unità da salvaguardare e mi afferra inesorabile il senso di responsabilità che mi mette al confronto con la volontà del Signore. Caro Igino, fa’ pregare la tua comunità perché io non mi inganni nell’interpretare con la ragione e con la fede quale sia in ogni momento la volontà che deve essere fatta in terra così come in cielo.

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