De Beni, IUS: L’educazione è impresa di ogni persona o istituzione che ha a cuore l’umanità
A incontrarlo oggi –autorevole docente universitario –non si direbbe, ma Michele De Beni ha l’animo del ribelle e la vena del contestatore. Nato in provincia di Brescia nel 1945, si è poi trasferito con la famiglia a Verona, dove vive. Sposato con Letizia, hanno avuto due figlie. Pedagogista, psicoterapeuta e scrittore, De Beni ha la passione per l’educazione: è stato maestro, insegnante alle superiori, dirigente scolastico e docente universitario. «L’educazione – afferma– è impresa di popolo. Se ci aiuteremo, la strada sarà un viaggio di condivisione e di speranza. Uniti si vince».
Oltre i titoli professionali, chi è Michele De Beni?
Cerco ogni giorno di impegnarmi a crescere. La mia più testarda aspirazione è cercare l’autenticità, lottare dentro di me contro finzioni e maschere che nascondono noi a noi stessi e agli altri. Non ho paura degli errori, ma di non riuscire a capirli e, soprattutto, di non volerli riconoscere. Penso che in questa tensione interiore stia la sfida più grande. Fin da piccolo avevo un forte senso della giustizia. Soffrivo quando facevo un torto a qualcuno, quando i miei amici più deboli venivano presi in giro. Ricordo mio nonno, persona di grande umanità, ma è soprattutto alla nonna, donna saggia e colta, che devo molto della mia formazione: aveva una pazienza illimitata, fermezza di carattere e capacità di ascolto. Penso che queste sue doti abbiano molto influito sulle mie scelte. All’Università optai per pedagogia, una scelta che stava maturando da tempo: cos’erano gli esempi di vita ricevuti fino ad allora se non un modo per farmi capire che ogni lavoro ha una sua dignità, una sua grande missione educativa?
Parlaci della tua formazione…
Appena diplomato, siccome la mia famiglia non poteva permettersi di farmi continuare negli studi, ho fatto un concorso come maestro. Avevo meno di 19 anni ed ero già di ruolo. Sono stati forse gli anni più importanti per la mia formazione a contatto con ragazzi disagiati dell’estrema periferia di Milano, quasi tutti pluribocciati, che il direttore aveva affidato a me perché li “raddrizzassi”. Li seguivo anche fuori dall’orario scolastico, li spronavo con decisione: nessuno doveva rimanere indietro. Con loro, anch’io lottavo e crescevo. Uno dei miei primi allievi, forse il più tribolato e disgraziato, la notte prima di morire chiese a suo fratello: «Cerca il mio maestro; mi voleva bene».
Mi sono poi iscritto all’Università per la laurea in pedagogia. Ho insegnato al liceo, ho fatto il direttore didattico. Mi sono specializzato in psicoterapia familiare e sono passato all’Università per ricerca nel campo della didattica. Lì ho insegnato Docimologia, una disciplina quasi sconosciuta, ma importantissima, che studia la valutazione dei processi di apprendimento e le metodologie degli esami. La mia è stata e, in un certo senso lo è ancora, una grande vocazione educativa. Mi piace insegnare e, pur in pensione, mi occupo ancora di educazione. Da anni collaboro alla ricerca psico-pedagogica presso l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano.
Quali sono stati i tuoi riferimenti professionali?
L’arte di educare non si improvvisa. Viene da lontano, dall’incontro con maestri veri. Ho avuto la fortuna, la grazia, di aver incontrato veri “maestri” di vita, che tanto hanno contribuito alla mia crescita. Fondamentale è stato l’incontro personale con un gigante della psicologia mondiale, Edward De Bono e i suoi studi sulle strategie di pensiero. Sentivo però che mi mancava un qualcosa che desse valore al pensare stesso. È stata la possibilità di vivere un’intesa esperienza con allievi del famoso psichiatra viennese Victor Emil Frankl, fondatore della logoterapia e dell’analisi esistenziale, che mi ha fatto fare un ulteriore passo nella comprensione del comportamento umano. Frankl è stato uno straordinario maestro: sopravvissuto a quattro campi di concentramento, ha diagnosticato il fenomeno del “vuoto esistenziale”. Questo approccio mi ha condotto a vedere quanto fosse necessario un fondamento, un’opzione di valore che facesse da punto di riferimento, non solo alle mie ricerche ma alla mia vita.
Fondamentale l’incontro con tua moglie Letizia. Su cosa avete basato la vostra famiglia?
Ho due figlie e cinque nipoti, la mia famiglia, i miei beni preziosi! Sette anni fa Letizia è partita per il Cielo. Prima di spirare mi ha chiesto: «Parlami del Paradiso». Durante la malattia me lo chiedeva spesso, consapevole che solo cercando più in alto si può capire quello che ci capita quaggiù, anche la sofferenza. In quel «parlami del Paradiso» era racchiusa l’aspirazione più grande coltivata da quando eravamo fidanzati: costruire una famiglia sulla fiducia e sull’amore. Sentivamo che occorresse conoscerci di più e guardarci sinceramente in profondità, nella reciproca fiducia e nella volontà di migliorarci. «Piedi per terra e occhi al Cielo», ci ripetevamo spesso. Sposati da tre mesi, abbiamo sentito che fosse importante aprirci agli altri. Così siamo venuti a contatto con il primo gruppo di Famiglie nuove della nostra città, del Movimento dei Focolari fondato da Chiara Lubich. Il primo impatto non fu facile né l’adesione immediata. Furono la comprensione e la vita autentica di questi nuovi amici che mi hanno fatto capire che la forza vera della libertà è l’amore.
Non hai ricevuto un’educazione religiosa in senso stretto…
Il mio papà era di una famiglia socialista. Perseguitato, riparato in Francia, nel 1943 era rientrato in Italia per la lotta partigiana. Il suo era un socialismo genuino, dal volto umano, segnato da un profondo senso della giustizia e della democrazia. Papà è morto quando ero piccolo in seguito alla malattia e agli stenti della lotta partigiana. Io e mia mamma allora ci siamo trasferiti dai nonni. Il mio avvicinamento alla fede è iniziato alla scuola media. Frequentavo l’Istituto don Bosco. Gli anni in collegio e poi in convitto sono stati decisivi per la mia fede, soprattutto per l’incontro con alcuni professori, padri autorevoli e amici fidati, pronti a sostenere nelle sfide della vita.
Hai conosciuto don Luigi Giussani, Chiara Lubich. Cosa ti hanno lasciato?
Quando ho frequentato l’università Cattolica, ho avuto la grazia di incontrare l’esperienza di don Giussani. La sua testimonianza mi ha immesso in quell’orizzonte della fede che inizia dalla rivoluzione di sé, da una vita come comunione. Don Gius (come tutti affettuosamente lo chiamavano) ci spingeva a vivere una fiducia in Dio non infarcita di elaborazioni teologiche, ma vissuta nella concretezza del dono di sé. Dopo l’università, l’incontro con il Movimento dei Focolari ha rappresentato per me la conferma della fede. La riscoperta del Vangelo mi ha dato un senso nuovo di vita. Questo è stato favorito dall’incontro con Chiara Lubich, una donna straordinaria per il contributo dato al pensiero e alla vita spirituale del XX secolo. Lei ha anticipato, in un certo senso, quello che la cultura cattolica avrebbe poi ri-scoperto: l’ingresso nel linguaggio spirituale della parola “amore” e l’idea di una “cultura dell’unità”. Mi ha colpito una sua meditazione sulla figura di Gesù Maestro, come Colui che è presente, che abita tra «due o più riuniti nel suo nome». Il modello espresso dall’insegnamento di Gesù mi ha conquistato per la sua provocante forza educativa. Gesù, quale uomo-Dio, mi parve essere il Maestro, Realtà-Viva che riassume in sé le caratteristiche della realtà e dell’utopia, della temporalità e della trascendenza. Gesù mi faceva capire il perché profondo della vita, svelandoci la legge ultima dell’essere: l’Amore.
Il tuo ultimo libro si chiama Perché insegno? Perché ci credo. Perché tieni tanto all’insegnamento?
Sono convinto che l’educazione sia il fondamento su cui si costruisce il futuro delle generazioni più giovani. Dovremmo saper incontrare gli studenti “come persone”. È da questa ineffabile e profonda relazione io-tu-noi che si trova il vero senso dell’educare. Nel libro edito da Città Nuova, insieme al collega Claudio Girelli dell’università di Verona ho cercato di raccogliere l’appassionata testimonianza educativa e didattica dei docenti italiani finalisti del prestigioso premio internazionale “Global Teacher Prize” e del “Global Teacher Award”. Insegnanti che hanno avuto il coraggio di innovare, convinti che da una buona scuola e da una buona educazione possa partire la scintilla che ispirerà i giovani, attori critici e costruttivi di cambiamenti. In questo libro si parla di strategie e programmi didattici innovativi, ma prima di tutto di passione e di cura dell’educare. La scuola deve saper educare, stimolando il piacere d’apprendere e un uso delle conoscenze rivolto al cambiamento di sé e alla costruzione di una cultura di solidarietà e di pace.
Sei molto attento alla formazione. Perché?
Nel 2017, quando avevo iniziato a pensare di ridurre i miei impegni nel campo educativo perché troppo incalzanti, mi è arrivato un accorato appello da parte di un gruppo di insegnanti del movimento Umanità Nuova. Era l’anno in cui Letizia si era aggravata e aveva bisogno di una mia maggior presenza. Con lei mi sono interrogato su questo nuovo compito ed è stata lei a spronarmi ancora. Da questo nuovo “sì” è nata una serie di seguitissimi convegni e ricerche sulla qualità dell’educazione, sull’intelligenza emotiva, sulla resilienza, sui conflitti, sulla felicità, sull’uso della parola in educazione fino a quello in programma a fine ottobre sull’educazione digitale. Il motto è “We Care Education”: noi abbiamo a cuore, ci prendiamo cura, lottiamo insieme, amiamo l’educazione. Su questa scia, con l’Istituto Universitario Sophia si sta organizzando per il 2025 una speciale summer school dal titolo “EduCare il futuro. Giovani, professione, mission educativa”.
Oggi si vive una profonda crisi educativa. Come affrontarla?
Siamo dentro una gigantesca trasformazione culturale che, come dice papa Francesco, è un grande “cambiamento di epoca”. Ciò esige uno sforzo, uno slancio generativo, per ritrovare insieme un ethos educativo nuovo che non sia una riproposizione di ciò che è stato, ma invenzione di ciò che non c’è ancora. Vorrei che la passione educativa non fosse un orizzonte relegato solo agli addetti ai lavori. L’educazione è impresa di popolo, di ogni persona o istituzione che ha a cuore i destini dell’umanità. Si cammina lungo sentieri accidentati, si condividono sforzi, emozioni, incoraggiamenti. Se ci aiuteremo, la strada sarà un viaggio di condivisione e speranza. Ci vuole il coraggio di mettersi in cammino insieme. È uniti che si vince, intessendo giorno dopo giorno quelle buone relazioni che fanno crescere. È gioia di vivere e di donarsi. È educarci e ripeterci l’uno l’altro: «Non aver paura».