Dare voce al dolore

Il pensiero che nasce dalla vita. La vita che genera pensiero. Klaus Hemmerle nelle parole appassionate della studiosa Viviana De Marco. 
Immagine simbolica

È una figura poliedrica: docente di teologia sistematica nella facoltà di teologia delle Marche, Viviana De Marco è anche attrice di teatro. Ha appena scritto per Città Nuova un libro sul pensiero di mons. Klaus Hemmerle, una personalità che Chiara Lubich considerava uno dei “cofondatori” dei Focolari: L’esperienza di Dio nell’unità.
 
Sono venti anni che lei studia il pensiero di Hemmerle, perché?
«Frequento il Movimento dei focolari fin da quando avevo dieci anni. Un giorno Chiara Lubich ci confidò che sarebbe stata contenta se alcune di noi ragazze avessero studiato filosofia e teologia. Era proprio l’esigenza che sentivo dentro, per cui decisi di dedicarmi alla ricerca per conoscere più in profondità sia la spiritualità dell’unità, sia quanto di originale c’è nel panorama speculativo contemporaneo. Proprio in quel periodo, uno dei miei professori, Piero Coda, mi propose, per il dottorato in teologia, di approfondire e far conoscere l’immenso patrimonio teologico, filosofico ed estetico di Hemmerle, scomparso da pochi mesi. Laureata in filosofia e in lingue, in quel momento avevo conseguito la licenza in teologia, conoscevo bene il tedesco e avevo già intuito l’originalità del pensiero di questo vescovo teologo, filosofo e artista. Ma non è stata solo una ricerca intellettuale, quanto l’esperienza di una profonda empatia».
 
È iniziato un coinvolgimento personale che continua tuttora…
«Il suo libro Partire dall’unità mi ha folgorata. Hemmerle è riuscito a tradurre in teologia l’esperienza più intima e forte di Chiara Lubich, con tutto l’aspetto sapienziale che la caratterizza. Di solito siamo abituati a staccare l’aspetto teorico della riflessione da quello concreto della nostra vita. In Hemmerle invece il pensiero nasce dalla vita e si trasforma in vita. Per cui l’obiettivo e il risultato non è solo un nuovo pensiero, anche se questo c’è ed è originalissimo, ma anche una nuova vita. In lui ho visto l’ideale di Chiara rispecchiato al punto tale da generare nuovo pensiero. Ed in tutto questo, come afferma la Lubich, Hemmerle ha sempre avuto la  creatività e la libertà dell’artista. Questa cosa mi ha profondamente affascinato».
 
Cosa direbbe oggi Hemmerle ad un filosofo?
«Tommaso d’Aquino ha tradotto il messaggio cristiano nelle categorie concettuali della metafisica classica, in particolare quella aristotelica, per cui legge la realtà del Dio di Gesù Cristo confrontandola con le categorie dell’essere già predefinite da Aristotele e Parmenide. Hemmerle propone un approccio diverso: partendo dal “centro” della Rivelazione cristiana, dal Dio trinitario e dall’esperienza di reciprocità dell’amore, è possibile “leggere” un nuovo tipo di essere, fondato non sull’identità, ma sulla comunione. Un essere che non si basa sulla conservazione della sostanza e sul pieno, ma sul dono, sul vuoto, sul non essere per essere amore: in una parola, su Gesù abbandonato».
 
Al teologo?
«La teologia non deve essere solo riflessione intellettuale, ma nascere dalla vita, dall’esperienza di Dio. Attingendo quindi anche da mistica e spiritualità. Il teologo non deve fermarsi al pensare, ma ha una possibilità ulteriore: cominciare ad amare. Il luogo migliore per fare teologia, infatti, è l’esperienza di Dio nell’unità, nel senso di aprirsi ad una reciprocità di amore tale che sia Gesù in mezzo agli uomini a fare teologia».
 
All’artista?
«La bellezza è dono e gratitudine. Come in Maria. Hemmerle dice all’artista: non sei il possessore o il comunicatore della bellezza, ma il custode, che deve accogliere e continuare a donare il dono che Dio ci fa. La proposta, quindi, è di scoprire una nuova dimensione dell’arte che non nasce dall’individualismo dell’artista, ma dal suo genio, donato nell’esperienza della reciprocità che si può vivere con altri artisti o tra interprete e autore di un testo».
 
Lei ripete che bisogna “andare oltre la notte”…
«A livello personale ho sperimentato, come accade a molti, il dolore, il crollo di tutto quello che avevo costruito, sognato, voluto. In quei momenti si perde ogni sicurezza, compreso il rapporto con Dio e le persone amate. Andare oltre la notte significa vivere intensamente quell’attimo, viverlo come dono, aprirsi agli altri e donarsi senza ripiegarsi in sé stessi. È anche la mia esperienza artistica: l’arte non può ignorare il dolore, pensando al bello come assenza del brutto. C’è un’arte di denuncia che si ferma al dramma e resta dentro il dolore. E ce n’è un’altra che, attraverso il dramma, dà qualcosa in più che eleva, un di più che senti nell’anima e ti porta a generare bellezza e vita. A me è capitato di scrivere i miei testi teatrali più profondi e riusciti proprio mentre avvertivo dentro di me la morte interiore. Così è nato ad esempio il mio spettacolo di teatro e musica Abissi di luce. Bisogna dar voce al dolore, trasformandolo in luce».

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