Daniel Oren trionfa nella Messa di Requiem di Verdi a Santa Cecilia

L’opera verdiana è tornata sul podio dell’Accademia Nazionale: mancava dal 2015. Il maestro israeliano ha diretto l’orchestra e il coro ceciliani assieme a un cast internazionale di solisti. Un successo esplosivo
. EPA/CESARE ABBATE

Sol podio scalpita, si alza, si abbassa, incita, agita la bacchetta. Un altro Benstein o uno dei soliti divi della bacchetta? Riccardo Muti inorridirebbe, Toscanini poi. Eppure, Daniel è autentico, “vive” la musica”, il Requiem verdiano.

Quante volte ascoltato, visto nelle interpretazioni dei grandi e piccoli direttori. La rivelazione della straordinaria architettura di questa musica mi è venuta a Ravenna da Riccardo Muti. Poi ci sono stati Abbado e Giulini. Il primo con un fuoco quasi gelido, il secondo con i tempi dilatati, meditativi.

Per Oren il Requiem è la passione dell’uomo, un uomo di fronte all’eternità. Sulla religiosità o meno di Verdi si discuterà sempre perché l’uomo è contraddittorio, ma la musica invece è chiarissima come il Giudizio di Michelangelo al quale viene spesso accostata.

L’inizio sussurrato, il Requiem aeternam è di una bellezza senza parole, pare la folla delle anime intorno al Cristo giudice della Sistina, imploranti. Oren insiste nei pianissimi, e giustamente. Poi la catastrofe del Dies irae come la fine davvero del cosmo, vede il Verdi più drammatico, esplosivo: un turbine di suoni, il terrore di un Dio più giustiziere  che misericordioso con l’orchestra ceciliana tesa al massimo sotto la sferza di Oren.

L’insistenza del basso sulle parole Mors, ripetute a distanza in pause drammatiche, dilata il tempo in uno stupore metafisico, in un terrore gelido. Per Oren sembra che tutto il Requiem sia una lotta dell’uomo con la Morte, vista nel suo terribile aspetto (“Morir, tremenda cosa”, dirà poi Verdi nell’Otello). L’uomo si riprende: “Quid sum miser tum dicturus (cosa dirà io allora, misero)?, cantano soprano mezzosoprano e tenore. È il tocco dell’implorazione così caro a Verdi nelle sue opere e che ritorna in questa che egli pensava fosse l’ultima.

Così tra paura e supplica il grande incontro con Cristo giudice prosegue ed Oren ottiene dall’orchestra in ogni sezione sfumature bellissime: leggerezza e poesia nei legni, grandiosità negli ottoni, morbidezza negli archi.Tutta l’orchestra canta, sempre. Sia nei gemiti, come nelle delicatezze (l’oboe con un accento “pastorale”), nelle condanne e in quella stupenda marcia funebre che è il Lacrimosa, sostenuto dai violoncelli e fagotti con l’orchestra: un corteo funebre immenso di tutta l’umanità.

Nell’Offertorio, Verdi innesta l’oasi dell’Hostias, melodia  sostenuta dai violini nei sovracuti che Oren allunga  facendoli sola luce, mentre tenore e basso cantano con quel trillo lento di commossa dolcezza. E se l’Agnus Dei vede la perfetta armonia fra soprano e mezzoprano, il Libera me conclusivo rivede il Verdi tragico riemergere con impeto e chiudere il Requiem con un insistito “liberami” che apre dileguandosi all’infinito. Cosa ci sarà dopo? Per Muti, la pace, per Oren resta il dubbio. Per chi scrive un dolore lentissimo che attende la luce senza fine.

Esecuzione  straordinaria e teatrale. Stupende le voci di  Eleonora Buratto (soprano), Ekaterina Semenchuck(mezzosoprano),  del tenore Francesco Demuro, del  basso Ain Anger. Magnifico il coro. Successo esplosivo.

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