Dalla parte del bene

Intervista a un friulano che onora la sua terra nel mondo: Carlo Sgorlon, "scrittore cosmico".
Articolo
«Un narratore è anche un artigiano, un professionista, e deve saper raccontare qualunque storia, anche quella di un santo». Così Carlo Sgorlon intende la figura dello scrittore (e insieme definisce sé stesso). Nei suoi romanzi di grande forza evocativa s’ispira in genere alla storia, osservata con occhio contemplativo, distante, ma con libertà d’invenzione, quando non spazia nei temi più vari, da buon friulano sempre curioso di nuove conoscenze.

Senza cedere a mode passeggere, questo solitario della nostra letteratura ha il gusto di raccontare con naturalezza storie mai banali, che attingono ai valori dell’etica, della natura e della vita, ed offrono modelli umani di comportamento positivi anche quando riguardano eventi drammatici e luttuosi del suo Friuli; storie ben lontane dal carattere inquietante, angoscioso e funereo di certi prodotti odierni.

Controcorrente rispetto alla cultura egemone, fissata su temi individualistici, predilige i temi corali e collettivi: come quando narra le vicende di un paese, un gruppo etnico, una famiglia patriarcale o un popolo intero, sia quello friulano o cosacco, istriano, zingaro, ebreo.

Con romanzi come La foiba grande e La malga di Sir ha anticipato argomenti scottanti che sono stati poi ripresi da altri. E ha contribuito a far riscoprire non solo in Italia, ma perfino in Cina, figure come Marco d’Aviano e Odorico da Pordenone.

Ho raggiunto Sgorlon nella sua casa di Udine. Con le affettuose puntualizzazioni della moglie Edda, l’intervista è proseguita davanti ad un menù friulano-asburgico nell’antica locanda dove l’imperatore Francesco Giuseppe sostava a volte durante le sue battute di caccia.

La domanda iniziale sugli autori a lui più affini ha fatto scaturire un vero fiume in piena con diversi rivoli – altrettante affascinanti “digressioni” – utili a sottolineare, per simpatia o per contrasto, l’uno o l’altro aspetto della poetica dello scrittore friulano.

 

«L’autore che più mi ha attratto verso i 15-16 anni è stato Dostoevskij, per la sua capacità quasi unica di scavare nella psicologia dei personaggi e perché privilegia il bene piuttosto che il male: ciò che non è frequente nella letteratura dell’Ottocento  e tantomeno in quella contemporanea.

«Un altro grande al quale devo parte della mia produzione è Tolstoj. Mentre tra gli autori frequentati nel periodo universitario c’è Kafka, che mi ha affascinato soprattutto per la sua concezione di una realtà dove tutto è precario, minacciato dall’intervento di elementi imprevedibili».

 

Però Kafka è uno scrittore angosciante, allucinato. Lei in fondo, almeno da come la descrivono, è una persona tranquilla, rasserenante…

«È vero (ride). Non a caso dopo Il Caldèras, una mia storia di zingari non troppo allegra, ho scritto quasi sempre romanzi a lieto fine (beninteso non un lieto fine banale, consumistico). E questo perché davanti alle disgrazie del mondo uno scrittore deve porsi il problema di coscienza se sia il caso di accentuarle anche con la sua narrativa.

«Un autore invece che mi ha sempre ispirato serenità per la misura del suo racconto è Thomas Mann. Di lui amo in particolare la quadrilogia biblica su Giuseppe e i suoi fratelli, ma anche certe leggende di cui dà una versione tutta sua. Non per niente Mann è come re Mida: tutto ciò che tocca diventa oro, oro letterario.

«E che dire di Karen Blixen? Fonte d’ispirazione per questa stupenda scrittrice, originaria di un Paese, la Danimarca, dove la favola è molto amata, non è tanto la realtà quanto piuttosto la sua trasfigurazione in favola, che è appunto quella tonalità che prediligo e domina in quasi tutti i miei libri.

«Sono un grande ammiratore anche di Isaac Singer, perché scrive con una naturalezza estrema e privilegia la problematica metafisica, fondamentale anche nella mia opera:un tema oggi trascurato, soprattutto dalla letteratura occidentale.

«Nel mondo mitteleuropeo Joseph Roth è lo scrittore a me più affine, per la levità con cui racconta la realtà mostrandola come attraverso un filtro favoloso, insieme ad una abilità stilistica straordinaria.

«Siccome mi piace creare delle situazioni insolite che appassionino il lettore senza farlo smarrire nel labirinto, mi affascinano anche gli scrittori “fantastici”, non troppo legati alla quotidianità, alla cronaca minuta, come Borges, Marquez e quasi tutti i narratori sudamericani, quando però non trattano problemi sociali: nel qual caso li trovo pesanti, noiosi, anche se giustificati».

 

Occhi pieni di meraviglia davanti al mistero. Sembra questa una cifra ricorrente nelle sue opere…

«Sappiamo come avvengono i fenomeni, sappiamo descriverli, però ignoriamo il perché ultimo delle cose. Da questo deriva la mia “religione del mistero”. Non per niente sono un grande ammiratore di Goethe – soprattutto quello delle opere narrativeper la sua concezione sacrale della natura. È la sua una religiosità di tipo cosmico, forse nemmeno cristiana, che comunque informa i miei romanzi».

 

La nostra civiltà industrializzata e individualistica, corteggiando il nulla, sa offrire perlopiù vie senza sbocchi, rappresentazioni di morte…

«Al nulla ho cercato sempre di oppormi per quello che ho potuto, scrivendo storie sorrette da una morale che non scende a compromessi. Io sono per l’ordine in tutti i sensi, compreso l’ordine etico; sto costantemente dalla parte del bene, o per lo meno di quello che ritengo essere il bene. Anche se – memore di un comune destino – è una mia costante la pietà verso chi commette il male».

 

Uno scrittore può contribuire a cambiare in meglio questa società?

«Nessuno può avere questa pretesa, però un suo contributo può darlo. Io provo una invincibile diffidenza verso i rivoluzionari che si propongono di cambiare il mondo, in quanto molto spesso l’hanno cambiato in peggio e al prezzo di milioni di morti. Credo piuttosto alla rivoluzione che possiamo fare dentro di noi, cioè ad un miglioramento etico come quello promosso da grandi spiriti quali san Francesco, Gandhi, Madre Teresa di Calcutta, non con la violenza ma mediante la parola, la persuasione, l’esempio».

 

C’è chi la considera scrittore non attuale o per lo meno conservatore.

«Vengo infatti accusato da certo mondo letterario di trascurare quelli che sono i problemi reali per dar spazio nella mia narrativa alle mitizzazioni d’ogni genere, alle invenzioni dell’anima popolare o anche colta. Ma, a parte il fatto che la mia scelta va ai miti positivi, poetici, pieni di significato, raccontare i sogni degli uomini non è essere poco realisti. Al contrario: il sogno fa parte integrante del nostro modo di vivere. Da sempre gli uomini hanno la tendenza a fantasticare sulla realtà creando dei miti; ed oggi non si mitizza meno di ieri: luoghi magari, persone, uomini politici…».

 

Cos’altro è Carlo Sgorlon?

«Mi ritengo uno scrittore “cosmico” perché sento la mia dipendenza nei confronti della realtà nella sua totalità. Tanto per cominciare, non mi sono fatto da solo, so di essere una creatura. Quindi sono legato a tutto l’universo in quanto risultato di una infinità di processi evolutivi. Chi riesce a sentirsi così perviene ad una umiltà che gli impedisce di assorbire i veleni, le superficialità e le banalità del nostro tempo che va sempre più verso l’individualismo. E l’individualismo è un pessimo compagno di strada».

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