Dai diamanti alla perla

Deogratias Kasujja o della piccola grande epopea di una famiglia ugandese.
Bambini africani

Le vicende del recente passato dell’Uganda sono ben presenti nel racconto di Deogratias Kasujja, ora tra i consiglieri centrali dei Focolari. Sono parte integrante della storia della sua famiglia, originaria di Masaka, ai confini del lago Victoria. La sua gente viveva una storia senza tempo, scandita dall’avvicendarsi delle nascite, delle morti, dei matrimoni. Fino a quando Henry Stanley, nel 1875, incontrò questo popolo così singolare, che gli pareva particolarmente adatto ad accogliere il messaggio cristiano. I primi missionari inizialmente furono ben accolti, ma poi la situazione precipitò.

Un giorno del 1885, un banale incidente scatenò nel re Mwanga un ingiustificato odio contro Giuseppe Mukasa, precettore cristiano che vegliava sui giovani assegnati alla corte, cercando di tenerli lontani dall’atmosfera corrotta della reggia: venne arso vivo. Dopo di che il sovrano si incattivì contro gli altri paggi che non volevano abiurare alla loro fede e cedere alle sue licenziose pretese. Tra il 1885 e il 1887 subirono la stessa sorte diverse decine di giovani, cattolici, anglicani e musulmani. Fra questi, ventidue cattolici, canonizzati da Paolo VI.

 

All’epoca della loro canonizzazione, nel 1964, eri ancora un ragazzo. Cosa ricordi?

«La mia famiglia è diventata cattolica nel periodo dei martiri dell’Uganda. Mio nonno paterno aveva tre anni e suo padre era alla corte del re. Erano tre fratelli e lui, da piccolo, si era fatto cristiano, mentre gli altri due fratelli erano rimasti musulmani. Per noi africani questi martiri ugandesi sono un punto di riferimento tale da non farci perdere la speranza di fronte alla situazione attuale del nostro continente».

 

Com’era la tua famiglia, come e dove vivevi?

«Sono nato nel ’51 e ho messo le scarpe per la prima volta nel 1962, il giorno dell’Indipendenza, quando siamo andati in città. Ho dei ricordi formidabili di quel giorno. La mia infanzia l’ho vissuta dunque in campagna. Mio padre, insegnante, era molto severo».

 

Tu eri il primogenito: alla sua morte dovevi prenderne il posto nella guida della famiglia allargata. Quali erano i tuoi compiti?

«Ancora vivente papà, avevo avuto occasione di assistere alle riunioni di famiglia e mi ero reso conto che la mia era molto numerosa: oltre 200 persone. Così ho pensato che se avessi preso l’incarico di capo-clan non sarebbe stato giusto, perché da diversi anni vivevo fuori dal mio Paese. La gente avrebbe dovuto spendere molto per contattarmi. Così alla sua morte, nel 2009, noi figli ci siamo riuniti e abbiamo chiamato anche la mamma e i cugini. Ho proposto di affidare questo compito a un mio fratello, ho spiegato le mie ragioni e tutti sono rimasti d’accordo perché il fratello da me proposto è una persona eccezionale, decano di facoltà in Scienze sociali. Quindi un onore anche per la grande famiglia».

 

Tra i tuoi parenti ve ne sono anche di religione musulmana. Come è il rapporto con loro?

«Se io avessi saputo che sarei diventato focolarino, avrei imparato l’arabo perché quando eravamo dai miei zii potevamo seguire una scuola coranica. Durante il periodo del Ramadan ci piaceva andare dai nostri parenti musulmani perché si mangiava bene. La domenica, la zia ci preparava gli abiti migliori, poi lo zio ci portava in chiesa sulla sua bicicletta. Lui restava fuori ad aspettarci e, quando uscivamo, a volte ci chiedeva cosa era stato detto durante la messa per vedere se eravamo stati attenti. C’era dunque molto rispetto reciproco».

 

Sei cresciuto in una famiglia ricca di valori. Ti sarà stata agevolata dunque la tua scelta di vita…

«Finita la scuola secondaria, avevo trovato lavoro in una fabbrica di zucchero, quando alcuni amici di infanzia mi hanno invitato a lavorare con loro. Non capivo che attività facessero, giravamo in macchina. Io guidavo molto bene: avevo preso, per sbaglio, la patente già a 16 anni. Dopo alcuni mesi di viaggi – sia in Uganda che nei Paesi confinanti – ho scoperto che nei fatti facevamo contrabbando di oro, diamanti, ecc. Nella mia inesperienza, non mi ero accorto di niente, ma purtroppo ero già molto coinvolto. Così sono entrato in una fase nuova della mia vita. Per me è diventata quasi una passione, un divertimento, pur sapendo che era pericoloso. Il rispetto per gli altri appreso dai miei non l’avevo più. Ho cominciato ad investire i miei guadagni, ma in modo che la mia famiglia non sapesse niente. Sapevano solo che ero molto ricco e avevo conoscenze altolocate. Questo è andato avanti dal 1971 al 1976 ».

 

Poi, cosa è successo?

«Durante un viaggio, sono passato accanto all’abitazione di un sacerdote che conoscevo. Era tardi, ero stanco e ho deciso di fermarmi per ristorarmi un po’. C’erano dei giovani che, pur non conoscendomi, mi hanno salutato con grande cordialità. Per pura cortesia ho accettato di restare “per quindici minuti”. Mi hanno raggiunto le parole di un discorso già iniziato: “Dio ti ama immensamente: anche se sei un ladro, un bandito…”. Mi sono sentito sprofondare. Mentre tutti uscivano, il sacerdote mi si è avvicinato; gli ho detto che volevo confessarmi. Poi gli ho chiesto cosa dovevo fare. “Tu lo sai…”, mi ha risposto. Avevo ormai tutto chiaro in mente: avevo delle case, delle macchine, una fabbrica. Ho cercato di dar via le case, ma nessuno le voleva perché non sapevano con quali soldi acquistarle. Finché, con un notaio, ho detto loro: “Ti regalo questa casa perché voglio dare la mia vita a Dio, mentre questa casa serve a te”. Così ho regalato ogni cosa e tutti hanno pensato che fossi impazzito».

 

In compenso avevi trovato la “perla” preziosa del Vangelo. E i tuoi, tua madre?

«Mia madre mi stava molto vicina. Volevo iniziare una vita nuova a Fontem, la cittadella camerunense dei Focolari, ma occorreva il passaporto, che io non avevo. Anzi, ne avevo diversi, ma tutti falsi. Nella capitale ho chiesto aiuto ad un alto funzionario. Mi ha detto: “Non c’è tempo da perdere: fa’ in modo di uscire prima possibile”, e ha aggiunto che ci sarebbe stato un colpo di Stato. Io mi sono recato direttamente all’aeroporto. Non avevo con me neanche una valigia e mia madre è scoppiata a piangere».

 

In tutti questi anni hai portato il tuo contributo di focolarino in tante nazioni africane. In Sudafrica ti sei laureato in teologia. Ora che sei stato eletto nel Consiglio generale del movimento, dove hai il compito della formazione spirituale, come lo vivi?

«A dire il vero, ho accettato questo mio nuovo compito con timore. In un colloquio molto forte con Gesù, gli ho detto: “Secondo me tu hai sbagliato. Tu sai che non sono adatto. Occorre stare troppe ore in ufficio! Dammi un campo da coltivare e ci starei dalla mattina alla sera. Dammi l’apostolato, e anche lì mi troverei bene. Ma se tu mi chiedi questo, mi darai le grazie necessarie”. E subito mi sono trovato bene nel nuovo compito, soprattutto per il rapporto “di famiglia” instaurato con tutti. Vedo che Dio chiede tutto, ma al tempo stesso indica la via, il modo per realizzare quanto domanda».

 

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