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Da Firenze al Sulcis, seguendo La Pira

di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

Perché la storia della Nuova Pignone, la fabbrica salvata dagli operai assieme al sindaco ribelle, è importante per capire come rispondere oggi alla corsa al riarmo. La dignità e la centralità del lavoro in un incontro promosso nel ricordo vivo e attuale di Luciana Scalacci

Fabbrica di armi della Rheinmetall al centro del riarmo in Europa EPA/HANNIBAL HANSCHKE

«La nostra patria è il mondo intero». Bisogna partire dalla vetta del monte Amiata in Toscana per capire le radici profonde del movimento operaio attratto dall’ideale espresso nell’inno de l’Internazionale: «né più servi né padroni, ma fratelli del lavoro». Da questo mondo sperimentato nella comunità dei minatori della natia Abbadia San Salvatore ha attinto la vita di Luciana Scalacci, che ad un certo punto si è incontrata con il Movimento dei Focolari fino a diventarne parte integrante pur mantenendo una posizione personale di “non credente in Dio”.

Una scelta che può apparire ad alcuni bizzarra, e forse sospetta, ma che è condivisa anche da altre persone dai percorsi più diversi, lontani da una fede confessionale e religiosa strettamente intesa, ma che sentono di essere parte di un Movimento evidentemente ecclesiale che, con tutti i suoi inevitabili limiti, esprime una tensione all’unità oltre i confini e alla fraternità come regola sovversiva di ogni regola.

Si spiega perciò perché il gruppo del dialogo tra persone di convinzioni diverse ha promosso, nel ricordo di Luciana Scalacci, la Carovana della fraternità a partire dalla sede del Nuovo Pignone, la fabbrica che doveva chiudere nel secondo dopoguerra licenziando 1700 operai, ma che l’azione congiunta dei lavoratori e del sindaco di Firenze dell’epoca, Giorgio La Pira, riuscì ad impedire grazie ad una proposta di riconversione al civile della produzione bellica, sostenuta dall’Eni, la grande impresa pubblica guidata da Enrico Mattei.

L’enorme stabilimento è ancora attivo ed è un punto di riferimento nel settore della produzione meccanica al servizio delle fonti energetiche, anche se il controllo è passato nel frattempo alla General Electric e ora alla Baker Hughes. Come ha sottolineato l’ingegner Michele Stangarone, introducendo l’incontro che ha visto anche la presenza della sindaca di Firenze Sara Funaro e del segretario provinciale della Cgil Bernardo Marasco, la vicenda del Nuovo Pignone rappresenta un contributo fondamentale al miracolo italiano degli anni ’60. L’impatto di quella scelta fu così profondo che, in soli dieci anni, l’azienda passò da una situazione di quasi chiusura a raggiungere i suoi primi record mondiali, cambiando per sempre la sua traiettoria e quella dell’intero settore industriale.

La conversione economica oggi

La “carovana” ha voluto mettere al centro dell’incontro di sabato 8 novembre la questione del lavoro nel tempo del riarmo e dei venti di guerra che spingono verso una progressiva conversione dell’economia, che spinge interi settori produttivi a compiere un percorso contrario a quella della Nuova Pignone.

L’opinione pubblica è disorientata e confusa, al contrario dei vertici politici e militari che parlano apertamente di farsi trovare pronti al possibile scontro con la Russia entro 5 anni (il ReArm Eu è stato rinominato Readiness 2030).

Ursula von der Leyen e Mark Rutte EPA/OLIVIER HOSLET

Parlare di La Pira oggi appare fuori luogo, a meno di non ridurlo ad icona consolatoria da confinare nella sfera profetica, lontana della storia reale dove le falci si trasformano in spade ribaltando la famosa citazione di Isaia che compare nel palazzo di vetro di New York, l’Organizzazione delle Nazioni Unite che ormai in troppi vogliono eliminare come finzione inutile in un globo diviso tra potenze militari ed economiche pronte a darsi battaglia. La nostra patria non è il mondo intero e siamo fratelli e sorelle solo all’interno di un’identità nazionale.

L’incontro dell’8 novembre, condotto da Michele Zanzucchi, non poteva essere e non è stato perciò un esercizio celebrativo.

«L’acquisizione e la trasformazione in Nuovo Pignone – ha detto Patrizia Giunti, presidente della Fondazione La Pira – non fu il salvataggio di un “carrozzone di stato” né pura opera di carità, ma un’autentica operazione di strategia industriale che permise all’Italia di ricostruirsi un ruolo e una dignità a livello internazionale. Lo stesso Enrico Mattei riconobbe che l’operazione si rivelò un affare di grandi proporzioni per l’ENI».

Giorgio La Pira e Firenze . Archivio Fondazione

L’insorgere della crisi della fabbrica rivelò che la solidarietà non era solo un principio scritto nella Carta Costituzionale, ma un “moto di partecipazione spontanea e potente” della città. «Firenze chiuse i battenti per unirsi attorno alla fabbrica e al sindaco». E tutto ciò avvenne, ha sottolineato Patrizia Giunti, in un periodo, i primi anni ’50, in cui la Carta costituzionale che pone il lavoro come fondamento della Repubblica democratica, “stentava a decollare” e c’era una forte tensione politica che rallentava la sua applicazione. La memoria di La Pira è tuttora osteggiata perché quel sindaco sostenne, applicando il pensiero di Keynes, che lo Stato ha la responsabilità di intervenire e correggere l’andamento del mercato, respingendo la teoria liberistica dell’autocorrezione. «Quando il mercato non garantisce la piena occupazione, è compito dello Stato intervenire con investimenti produttivi».

Dalle lotte operaie all’eclisse del lavoro

La centralità del lavoro è una conquista recente. Come ha posto in evidenza nel suo intervento l’economista Luigino Bruni, la parola stessa labor, nella sua radice latina, sembra derivare dallo slavo rab, che significa appunto schiavo. Era un’attività associata, nell’antichità, alla condizione servile e all’impurità, separata nettamente dalla vita nobile del cittadino libero. Il capovolgimento di prospettiva è avvenuto con il cristianesimo che ha come fondamento un lavoratore manuale, non solo il figlio del falegname carpentiere egli stesso e le cui mani, prima di spezzare il pane eucaristico, erano callose e segnate da schegge di legno. Gli stessi apostoli, afferma Bruni, erano pescatori, uomini abituati alla fatica e all’azione collettiva. Una ricostruzione, si può osservare, che si distacca da recenti narrazioni che amano presentare tali lavoratori come dei piccoli imprenditori. Ma tale consapevolezza, riconosce il noto economista, non ha avuto riconoscimento effettivo in sistemi che sono rimasti divisi in caste.

Solo con le lotte del movimento operario, sorto durante la rivoluzione industriale, hanno avviato un processo di cambiamento che anche la Chiesa ha avuto inizialmente difficoltà a riconoscere, come dimostra l’impostazione difensiva della Rerum Novarum, l’enciclica del 1891 che ha comunque segnato un passaggio d’epoca nel mondo cattolico che ha concorso alla redazione della Costituzione. Una conquista che va continuamente difesa mettendola in pratica.

Quarto Stato’ di Pellizza da Volpedo ANSA / BGG

Oggi, secondo Bruni, assistiamo a una progressiva eclissi del lavoro, il cui valore intrinseco è oscurato dall’impero pervasivo della “cultura del business” – da non confondere con la ben più seria teoria economica. Questa cultura si è imposta come una nuova religione con tre grandi dogmi: gli incentivi, la meritocrazia e la consulenza. Abbiamo assistito alla sostituzione del paradigma politico del Novecento, fondato sulla partecipazione, con quello manageriale: oggi, per fare qualunque cosa “seria”, dalla scuola alla politica, si invocano “facilitatori” e “consulenti”, importando un linguaggio e una logica aziendale che svuotano i luoghi della loro anima. E questo avviene purtroppo anche in ambienti ecclesiali.

Per capire le dimensioni della torsione contemporanea del senso autentico del lavoro, Bruni ha invitato ad approfondire tre opere letterarie che aiutano a leggere la realtà attuale. La novella La Roba (1881) di Giovanni Verga, dimostra l’attaccamento nichilista al possesso, che sostituisce ogni affetto come espressione della patologia di una cultura che, non sapendo lasciare un’eredità, finisce per divorare tutto. Oltre ogni retorica il libro Cuore di Edmondo De Amicis, secondo Bruni racchiude nel racconto del muratorino l’importante consapevolezza della dignità del lavoro che magari “sporca ma non insudicia”. Infine nella storia di Lorenzo, il muratore che gli salvò la vita nel lager nazista, Primo Levi ci ha consegnato l’importanza del lavoro ben fatto; Lorenzo era fiero dei muri che sapeva tirare su, anche nelle condizioni peggiori, come atto di resistenza interiore per non soccombere all’umiliazione imposta dal potere prevaricante.

Per secoli, osserva Bruni, abbiamo saputo che la ragione per fare bene qualcosa è interna all’opera stessa: è l’etica del “lavoro ben fatto e basta”. La logica dell’incentivo è un attacco diretto alla dignità del lavoro, perché si finisce per lavorare bene solo finché si è pagati, controllati o premiati. È l’esatto contrario del muratore di Levi, che agiva per dignità “anche se nessuno ti vede”.

Per vivere un’esistenza piena, giusta e autenticamente umana, inoltre, occorre saper integrare la dimensione del lavoro con quella della cura: la cura dei figli e degli anziani, della comunità, del bene comune. Secondo Bruni, che cita la filosofa Jennifer Nedelsky, anche un ottimo lavoratore che non si occupa di nessuno è, in sostanza, un cittadino immaturo.

Un laboratorio per l’economia di pace

Della cura del mondo intero ha poi parlato Cinzia Guaita, portavoce del Comitato riconversione Rwm, ponendo in evidenza la storia della famiglia di Giorgio Isulu che, assieme alla moglie Daniela e ai 4 figli, ha deciso di non andare a lavorare presso una fabbrica produttrice di missili e bombe (la Rwm di proprietà della tedesca Rheinmetall Defense), nonostante la condizione di disoccupazione  che condivide con quasi la metà della popolazione del Sulcis in Sardegna. Isulu è stato, infatti, licenziato improvvisamente, assieme ai suoi colleghi, da una multinazionale che ha deciso di abbandonare l’Italia senza alcuna opposizione efficace della politica del nostro Paese. Una prassi crudele sperimentata troppe volte in quell’isola come, ad esempio, nella vertenza della statunitense Alcoa di Portovesme.

Decisioni che maturano da molto lontano per imporsi, poi, sulla carne viva di persone e storie che esprimono tuttavia una capacità di resistenza insospettabile, come quella della famiglia Isulu che non è rimasta però da sola. Perché esiste anche una parte di società civile che prova a costruire una reale alternativa al ricatto occupazionale dell’economia di guerra. A Firenze Cinzia Guaita ha raccontato la storia del Comitato riconversione Rwm sorto per dare un altro destino al Sulcis Iglesiente, senza accontentarsi di restare al livello delle prediche ma riuscendo ad incidere a livello politico fermando, grazie ad una rete nazionale e internazionale, il traffico di bombe e missili dallo stabilimento italiano della Rheinmetall ad un hub strategico della filiera bellica come è l’Arabia Saudita.

Foto Comitato Riconversione RWM

Un risultato possibile in forza di una legge tuttora vigente, la legge 185/90, che pone dei vincoli ragionevoli a tale settore di produzione. Una normativa costantemente sotto attacco, ma che fu approvata in forza dell’obiezione di coscienza alla produzione bellica praticata da alcuni lavoratori  nelle fabbriche dell’ex Finmeccanica, ora Leonardo, verso sistemi d’arma destinati a Paesi in guerra. Allo stesso modo, oggi, i dipendenti della Leonardo di Grottaglie non vogliono inviare armi al governo israeliano, autore della distruzione di Gaza.

Il comitato riconversione Rwm non dice solo dei No, ma ha avviato una rete di imprese che hanno deciso di non collaborare alla filiera bellica. Hanno preso il nome di War Free, registrandosi come marchio internazionale, e costituiscono un esempio di come potrebbero essere impegnati i fondi del Pnrr e le agenzie pubbliche allo sviluppo. Per tale motivo il 14 e 15 novembre si terrà ad Iglesias un seminario di giornalismo, per dare centralità a queste storie che il mainstream definisce non notiziabili, e ad una sessione del Laboratorio nazionale permanente di riconversione economica per una politica industriale di pace.

L’insorgere del rifiuto della produzione bellica delle lavoratrici e dei lavoratori era considerato come un pericolo per l’ordine costituito, secondo un noto scrittore della Civiltà Cattolica nel 1950 che invitava a non approvare la proposta di legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare avanzata dal socialista Umberto Calosso e dal democristiano Igino Giordani a partire dal caso del rifiuto delle armi di Pietro Pinna. Così anche La Pira fu inquisito anni dopo con l’accusa di apologia di reato per aver fatto proiettare in pubblico il film francese Non uccidere.

Portuali di Genova contro il traffico dii armi nei porti ANSA/LUCA ZENNARO

Da questa storia si comprende perché anche oggi i portuali di Genova si rifiutino di caricare armi e persone. E come Giorgio Isulu sia ora il garante della rete di imprese War Free. Come a dire che La Pira, Giordani e anche Luciana Scalacci non possono essere consegnati alla memoria agiografica, ma costituiscono motivo di continua ricerca di un mondo come patria comune.

Dagli schermi de La7, la sera dello stesso sabato 8 novembre è andato in onda un servizio televisivo sulla resistenza in Sardegna alla produzione bellica della Rheinmetall intervistando Isulu e la sua famiglia. Alcuni commenti in studio si sono limitati a dire che, ad ogni modo, il processo di riarmo europeo è inarrestabile e vede la multinazionale tedesca in grande ascesa con sinergie sempre più strette con l’italiana Leonardo.

È questo il varco attuale della storia, usando un’espressione di La Pira, per capire se la vicenda della Nuova Pignone e della dignità del lavoro appartenga ad un capitolo ormai chiuso o sia, al contrario, ancora un punto di riferimento, come dimostra la storia di War free e la proposta di una diversa politica economica.

Qui per approfondire il lavoro del Laboratorio nazionale permanente di riconversione 

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