Crisi nella Chiesa irlandese

Il rapporto sugli abusi sessuali . Le responsabilità dei prelati. Lo sconcerto dei fedeli. Una sfida per la comunità ecclesiale.

La Chiesa irlandese sta attraversando una crisi profonda, in seguito alla pubblicazione del rapporto sugli abusi sessuali nella diocesi di Dublino. Due vescovi, Donal Brendan Murray e Jim Moriarty, hanno già rassegnato le dimissioni, e sembra che altri li seguiranno.

Il Rapporto Murphy – così chiamato dal nome del giudice che ha condotto l’inchiesta – copre il periodo dal 1975 al 2004 ed esamina i casi di 46 sacerdoti, un campione dei 102 accusati di abusi durante questo periodo. Il rapporto parla di 320 persone che lamentano di esserne state vittima, concludendo che non c’è alcun dubbio che «l’arcidiocesi di Dublino ed altre autorità ecclesiastiche abbiano coperto gli abusi sui minori».

Il fatto che ci siano preti pedofili è chiaramente una brutta notizia. Ma è nota già da tempo, per cui non è questa la parte del rapporto che più colpisce. Lo shock è dovuto piuttosto all’accusa rivolta direttamente alle gerarchie ecclesiastiche, che avrebbero coperto l’accaduto. Ciò ha minato la tradizionale fiducia popolare nella Chiesa, mettendo in discussione il suo operato e il suo rapporto con lo Stato.

Il documento è arrivato poco dopo un’altra indagine, il Ryan report, che aveva messo in luce gli abusi perpetrati sui bambini negli istituti per minori, molti dei quali gestiti dalla Chiesa: nessuna sorpresa, dunque, davanti alla rabbia e alla vergogna della gente, meravigliata che proprio i religiosi abbiano perso di vista i più elementari princìpi morali.

Per mons. Martin, attuale arcivescovo di Dublino, che all’epoca degli abusi viveva all’estero (e non è quindi sotto accusa), «nessuna richiesta di scuse sarà mai sufficiente» davanti alla fiducia tradita e all’infanzia rubata.

Nella gran mole di questioni sollevate dal rapporto è comunque importante tener presente, come ha sottolineato il primo ministro irlandese, che «gli abusi da parte dei sacerdoti sono solo una parte di un problema che si estende a tutta la società».

 

La cultura clericale

 

Quello che emerge è che la deferenza nei confronti della Chiesa è degenerata in una situazione in cui lo Stato stesso, venendo meno alla sua responsabilità di assicurarsi che la legge sia uguale per tutti e garantendo una sorta di zona franca alle istituzioni religiose, ha finito per facilitare la copertura di questi crimini. Quando la polizia irlandese venne avvertita da Scotland Yard riguardo ai sospetti su un sacerdote, non fece altro che rimettere la questione all’arcivescovo senza indagare.

Questa “cultura clericale” viene severamente criticata nel Rapporto Murphy. In una gerarchia completamente isolata dal resto della Chiesa, la preoccupazione principale diventò quella di «evitare lo scandalo e preservare il buon nome di coloro che l’istituzione considerava i suoi membri più importanti: i sacerdoti». Per i preti, questa è una dura lezione su come ciò che importa sia sempre e solo fare tutto davanti a Dio e per Dio.

La reazione immediata al rapporto è stata la richiesta di dimissioni di alcuni vescovi e alti prelati. Molti chiedono segni di pentimento tangibili, per evitare il rischio che tutto venga dimenticato una volta passata la tempesta. Mons. Martin ha espresso con forza la necessità di riconoscere apertamente la responsabilità dei prelati coinvolti; in più, poiché diversi studi sostengono che la percentuale di pedofili nella società rimane costante, la Chiesa «deve assicurarsi che queste persone non diventino preti».

Il problema immediato però è la sicurezza dei bambini. Nella diocesi di Dublino, 2100 volontari parrocchiali hanno preso parte a corsi di formazione per la protezione dei ragazzi, ed oltre 7 mila persone – tra prelati, personale delle parrocchie e delle scuole – hanno collaborato alle indagini della polizia.

Ma la questione va oltre gli abusi sui minori: richiede una risposta più vasta ad ogni livello della Chiesa. Come ha affermato il card. Brady, tutti saranno chiamati ad una maggior responsabilità. Già alcuni anni fa il Rapporto Fern parlava della necessità di un rinnovamento nella formazione dei vescovi. Anche l’ultimo documento auspica una miglior gestione delle istituzioni ecclesiastiche, grazie alla partecipazione dell’intera comunità.

 

Uno sguardo al futuro

 

Non c’è una facile via d’uscita da questa crisi. Preoccupano soprattutto le ripercussioni sulla fede dei giovani, per quanto sia difficile valutarle da qui a dieci o vent’anni. Mons. Martin li ha invitati a non allontanarsi: «La vostra Chiesa è quella del futuro, il futuro che verrà quando la mia generazione non ci sarà più. E la Chiesa non si riforma abbandonandola, ma vivendo la Parola. La Chiesa ha bisogno della vostra integrità, della vostra onestà e del vostro idealismo».

Un passo cruciale in questo rinnovamento è la lettera ai cattolici irlandesi promessa dal papa. Il card. Brady e mons. Martin si sono incontrati con Benedetto XVI lo scorso 11 dicembre per discutere sul Rapporto Murphy e hanno riferito che il papa «era visibilmente scosso e condivide la rabbia e la vergogna provata dai fedeli irlandesi».

La situazione in Irlanda è tesa: la Chiesa viene criticata anche dai cattolici più fedeli, che chiedono un approccio più partecipativo alla vita della comunità. I sacerdoti si sentono spesso disorientati davanti a quanto sta accadendo, e non si trovano sempre d’accordo su come comportarsi davanti all’ondata di laicismo.

La questione dell’unità è diventata centrale: quella che esisteva in precedenza tra i prelati era soltanto di facciata oppure sincera? Era unità nella verità? Sono questi i punti focali della nuova unità a cui la Chiesa intera è chiamata, perché ciascun fedele sia protagonista nel portarla avanti ogni giorno.

L’immagine che viene in mente è una notte oscura dell’animo collettivo. La lunga serie di accuse, incomprensioni, tradimenti, sospetti ed odio ha messo a dura prova lo spirito degli irlandesi e dei vescovi in particolare, la cui posizione adesso è tutt’altro che invidiabile. C’è però la consapevolezza che questo disagio va oltre la questione degli abusi sui bambini, e sta cercando le premesse per un intervento di Dio volto a far emergere qualcosa di nuovo anche dalle situazioni più difficili.

C’è bisogno di una nuova concezione di Chiesa come comunità unita in Cristo, per essere luce nell’Irlanda del terzo millennio. Così come nel primo millennio buona parte dello sforzo di evangelizzazione dell’Europa è partito dall’Irlanda, quest’esperienza segna un nuovo stadio nella storia della Chiesa nel Paese. Si stanno gettando le fondamenta di una Chiesa più partecipativa, laica, carismatica, organizzata, comunitaria: in una parola, una Chiesa che riconosca sia il profilo petrino che quello mariano.

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