Crisi: la lezione del passato

Dai missili a Cuba all’austerity, dalle stragi al terrorismo, il difficile percorso di maturazione della società umana.
68: una manifestazione di operai e studenti.

Quest’anno, col dramma della pandemia, le settimane che viviamo sono di piena suspence. Nella trepida attesa di un futuro incerto, ci accorgiamo di essere piombati, per colpa di un microrganismo, nell’ennesima crisi. Economica, sociale, morale, culturale: «Niente sarà come prima», «Come ci risolleveremo?». È una nuova era di precarietà, foschia e navigazione a vista, che non sappiamo quanto durerà, né dove andrà a sboccare.

I lettori con le antenne più sensibili avranno còlto l’aggettivo: “nuova”. Eh già, perché alle crisi, alle fasi instabili e incerte, noi umani, e soprattutto noi che siamo cresciuti nel secolo breve, nell’adorato, incredibile, maledetto ’900, ci abbiamo fatto il callo. Il XX, cioè il passato recente di tutti, è stato il secolo delle crisi, e delle trasformazioni-rivoluzioni-evoluzioni-involuzioni che le crisi originano. Non parliamo dei primi 50 anni. Due guerre mondiali, la rivoluzione sovietica che ha coinvolto mezzo mondo, i totalitarismi e i disastri che ne sono nati, dicono tutto sull’instabilità permanente e profonda in cui il mondo ha vissuto. Col rischio di sparire, come Hiroschima e Nagasaki sotto le bombe atomiche Little boy e Fat man. Ma l’età che possiamo dire “nostra”, la seconda metà del ’900 e questi primi lustri del XXI secolo e terzo millennio, quanto a crisi e precarietà non è seconda a nessun’altra. Vediamo un po’ al volo quali di queste crisi si potrebbero ricordare.

Tra gli anni ’40 e ’50 intanto ce n’è una, enorme, storica: l’immediato dopoguerra, iniziato fra macerie, miseria, incertezza del domani, conflitti sociali durissimi, e concluso nella seconda metà del decennio con il miracolo economico, l’Oscar delle monete alla lira (e quelli della 7a Arte a tanti nostri cineasti), le Olimpiadi di Roma e un regime democratico-costituzionale tutto sommato ben funzionante. A riprova che la società può risolvere le fasi incerte e difficili solo con lavoro, impegno, serietà, fiducia, solidarietà e chiara unità di intenti sugli obiettivi da centrare. Tutte condizioni rispettate durante i magnifici anni ’50, per l’Italia il periodo più costruttivo e sereno della sua storia recente.

I ’60 continuarono più o meno questa tendenza positiva. Con una brevissima ma raggelante interruzione, la crisi dei missili sovietici nella Cuba di Castro a ottobre 1962, che per qualche giorno fu lì lì per scatenare un conflitto nucleare fra Usa e Urss, trasformando la guerra fredda nella fine del pianeta Terra. Il che avrebbe risolto tutte le crisi! Ma invece il pianeta continuò a girare, lo sviluppo socio-economico e l’evoluzione del costume proseguirono e al giro di boa del 1965 i Beatles, la minigonna e, perché no, il Concilio Vaticano II (non sembri irriverente l’accostamento) segnarono un felice momento di stabilità, di soddisfazione, di speranza e ottimismo per l’umanità. Libera, evoluta e giunta, era questa la sensazione e l’illusione, alla sua serena maturità.

Ma altre crisi erano in agguato: il ’68 e il ’69, la rivoluzione studentesca e l’autunno caldo operaio. Impossibile dilungarsi su quanto ci sia stato di giusto e necessario, e quanto invece di sbagliato, discutibile e problematico. Qui interessa dire che il ’68-’69 introdusse una nuova fase di instabilità, precarietà quotidiana, fragilità e provvisorietà, sia nelle scuole e nelle università che nei luoghi di lavoro e nella società. Rimanevi in panne perché i benzinai erano chiusi, il pattume si accumulava perché gli addetti scioperavano, la posta, allora fondamentale, ritardava o si perdeva per strada, i giornali non uscivano, gli studenti si accalcavano sotto le scuole e le facoltà e i docenti facevano lezione ai banchi vuoti.

È stato questo per anni lo scenario della crisi, e la mia generazione viveva quelle disfunzioni per la prima volta. Se ne uscì all’inizio dei ’70 da un lato con pazienza, fiducia e impegno, dall’altro con virtù e risorse nuove come realismo, spirito di adattamento, pensare positivo, apertura al nuovo, al cambiamento e al futuro.

E veniamo alle crisi più vicine, che hanno messo in discussione i nostri modelli di sviluppo, e reso oscuro il domani. Da quella petrolifera, con l’indimenticata austerity (programmi tv anticipati per risparmiare energia, vetrine buie, in strada con la bicicletta: Paolo VI andò in carrozza a onorare l’Immacolata l’8 maggio a piazza di Spagna), al ciclone terroristico nelle sue varie fasi (Brigate Rosse, stragi nere e/o di Stato, integralismo islamico pre e post 11 settembre), dal crollo del comunismo (con gli schemi abituali e rassicuranti che saltarono tutti) alla rivoluzione informatica, che ha mutato come poche cose nella storia il lavoro e l’esistenza di tutti.

Dopo tutto, la multiculturalità di oggi e domani è una crisi permanente, ma salutare, di maturazione. Dipende da noi come sempre, dalla nostra volontà e capacità di essere propositivi e costruttivi, se l’attuale crisi post-endemica e post-lockdown sarà di dissoluzione o di crescita. Dalle esperienze di precarietà del passato viene una lezione: pensare positivo. Seguiamola.

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