Crisi del modello europeo e rischio speculazione per l’Italia

Dal peso indebito delle agenzie rating al potere dei fondi speculativi. I vincoli dei trattati europei alle scelte di politica economica del nostro Paese. Intervista a Carlo Clericetti, giornalista economico e fondatore del sito Eguaglianza e Libertà
Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede; il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte e il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, ANSA/CLAUDIO PERI

Il ministro dell’economia, Giovanni Tria, è in Cina dal 27 agosto con una delegazione composta dal direttore generale di Banca d’Italia, l’amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti e l’amministratore delegato di Snam. La visita attira una discreta attenzione mediatica in vista dei possibili accordi con il gigante economico asiatico non solo su investimenti infrastrutturali, ma anche, si presume, per la ricerca di acquirenti del debito pubblico italiano.

Come indicato dal professor Benedetto Gui su Città Nuova, esiste il rischio di speculazione al ribasso per il nostro Paese, soggetto al verdetto delle agenzie internazionali di rating che, con i loro voti, determinano le scelte dei grandi investitori sui mercati finanziari. Nel mentre la discussione sulla legge di bilancio è alle porte, con il prevedibile scontro che rimanderà ai controversi rapporti esistenti con l’Unione europea.

Per acquisire elementi di approfondimento e dibattito abbiamo chiesto il parere di Carlo Clericetti, giornalista economico tra i più noti, che ha diretto l’inserto Affari e Finanza del quotidiano Repubblica e ha fondato, tra l’altro, con Pierre Carniti, il sito di critica sociale “Eguaglianza e Libertà”.

Cosa si intende quando si dice che “governano i mercati”? Può davvero l’azione comune di alcuni fondi speculativi gettare un Paese nel panico?

I fondi speculativi sono molti e controllano masse enormi di denaro. Il loro scopo è il massimo profitto senza riguardo agli eventuali danni che possono provocare ad un Paese. Ma forse ancora più pericolose sono le agenzie di rating, anch’esse società finanziarie private che valutano l’affidabilità come debitore di un Paese. Nonostante i loro clamorosi errori e il coinvolgimento in vicende di conflitto d’interesse che le hanno spinte a numerose illegalità, le istituzioni ancora attribuiscono loro un potere immenso, perché si basano sui loro giudizi. La Bce, per esempio, per statuto non può accettare in garanzia titoli che non siano valutati “investment grade” (cioè a basso rischio) da almeno una delle quattro più grandi (Moody’s, Standard & Poors, Fitch e Dbrs). Se l’Italia scendesse sotto quella valutazione – e mancano appena due “gradini” – verrebbe esclusa dai finanziamenti della Banca centrale e questo provocherebbe problemi molto seri. È una follia che ci si affidi a soggetti privati e screditati per decidere le sorti di uno Stato. Ma anche questa non è una cosa inevitabile: è una scelta politica, di una politica che ha trovato il modo di imbrigliare la democrazia.

Parlando di Europa non si può non affrontare il nodo Germania. Perché si afferma comunemente che il Paese governato finora dalla Merkel impone direttive che favoriscono solo i suoi interessi?

La Germania ha scelto un’economia basata sull’export, e così facendo impone agli altri Paesi della moneta unica una competizione basata sulla compressione della domanda interna e dei salari, che provoca deflazione e tiene alta la disoccupazione. Una delle regole europee per la prevenzione delle crisi macroeconomiche le imporrebbe di ridurre il suo surplus, espandendo la domanda interna con benefici effetti anche sulle altre economie, ma la Germania, che la sta ampiamente violando da quattro anni, si rifiuta di rispettarla. Come si rifiuta di completare l’unione bancaria con l’assicurazione europea dei depositi, obiettando che in questo modo si assumerebbe dei rischi, come ha sempre rifiutato di fare, e continua ad escludere strumenti come gli eurobond finalizzati a investimenti in infrastrutture europee, che sarebbero un prezioso stimolo per l’economia. Inoltre è riuscita ad ottenere l’esclusione dalla vigilanza europea di gran parte del suo sistema bancario, infarcito di asset opachi e dal valore incerto. Questo mentre propone nuove norme che colpirebbero soprattutto le nostre banche, già svantaggiate dal fatto che le norme di Basilea considerano più rischiosi i prestiti all’economia, che per i nostri istituti di credito sono un’attività importante, rispetto al possesso di derivati, che invece le banche tedesche posseggono in sovrabbondanza. Si potrebbe proseguire, ma già questo è più che sufficiente.

Si può incidere come governo nazionale sulle decisioni europee? Oppure non resta altro che, a prescindere dai colori dell’esecutivo, un semplice dissenso? 

I dissensi italiani sono stati spesso strumentali, tesi a scaricare sull’Europa le responsabilità dei nostri governi, che sono state molte e gravi. Ciò detto, per l’Italia è molto difficile incidere sulle decisioni europee, in primo luogo perché quasi mai è in grado di proporre alternative plausibili. Per provarci dovrebbe innanzitutto elaborarle, poi essere capace di trovare degli alleati e infine di resistere alle pressioni, usando e tenendo fermo il potere di veto anche su questioni diverse da quelle in discussione, utilizzandolo come arma di pressione per farsi ascoltare. Finora nulla di tutto questo è mai accaduto.

Il conflitto, ora sopito, sul nome di Paolo Savona nella formazione del governo Conte ha avuto il merito di far emergere i conflitti esistenti sulla modalità della nostra adesione, nel 1992, al Trattato di Maastricht.  Una scelta comunque lungimirante e necessaria oppure, come dicono alcuni, contraria ai principi generali della nostra Costituzione economica? 

Ha detto l’ex ministro Vincenzo Visco, che fu tra i protagonisti di quella vicenda guidando le Finanze prima con Ciampi e poi con Prodi, che non era questa l’Europa a cui avevano voluto aderire. Ricordiamo che in quegli anni si parlava di “modello europeo”, distinguendolo da quello anglosassone e intendendo un tipo di capitalismo “dal volto umano”, in cui la distribuzione della ricchezza era molto meno sperequata e il welfare e le protezioni del lavoro promettevano un tipo di società inclusiva e relativamente solidaristica. La memoria del cosiddetto “Trentennio glorioso” (dal dopoguerra fino alla metà degli anni ’70) era ancora viva e le strutture costruite in quel periodo non ancora smantellate.

E, invece, cosa è successo?

I progressisti pensavano che le relazioni sempre più strette fra i Paesi europei avrebbero proseguito su quella strada. Non avevano valutato che le crisi degli anni ’70 avevano provocato una svolta politica profonda, iniziata nella teoria economica e diventata poi egemonica nella società. La svolta è quella del cosiddetto “neo-liberismo”, termine con il quale indichiamo un gruppo di teorie in varie discipline (non solo economiche, ma anche giuridiche, politologiche, delle strutture sociali) che presuppongono la prevalenza dei cosiddetti tecnici rispetto ai politici, una drastica riduzione dei compiti dello Stato, la maggiore efficienza dei privati per qualsiasi compito. La struttura dell’Unione europea, dal Trattato di Maastricht alla moneta unica, agli accordi seguiti negli anni successivi, è stata costruita secondo quelle logiche, che sono diverse da quelle in base alle quali fu pensata la nostra Costituzione.

Con quali conseguenze pratiche?

Tra coloro che ebbero maggiore influenza nel processo della nostra adesione, c’erano persone come Guido Carli, Beniamino Andreatta, Romano Prodi e Tommaso Padoa Schioppa, all’epoca convinte che fosse necessario all’Italia un forte “vincolo esterno” che la costringesse alla disciplina, soprattutto nei conti pubblici. Oggi, alla luce degli esiti di questo processo, possiamo dire che da tutti costoro fu fatto un drammatico errore di valutazione, che ci ha portato ad una situazione in cui non abbiamo più alcuna leva per manovrare la politica economica (non la moneta, non l’industria pubblica, non la politica fiscale), né questo è compensato dalla possibilità – e capacità – di influire sull’evoluzione della struttura dell’Unione.

Quanto è in pericolo l’Unione europea?

È molto in pericolo. Le sue regole hanno dimostrato di non funzionare, facendone l’area del mondo in cui la crisi del 2008 è durata di più e ha avuto effetti più pesanti; le economie dei Paesi membri, che avrebbero dovuto convergere, sono più divergenti di prima; chi non è ancora entrato nella moneta unica (per esempio la Polonia e altri paesi dell’est) si guarda bene dall’aderirvi; le riforme in gestazione sembrano voler provocare altre crisi invece di risolverle. A ciò si aggiunge il problema dell’immigrazione, che l’Europa si è dimostrata incapace di gestire e che provoca altre lacerazioni, e ora la scontro con l’America di Trump. Se poi la presidenza della Bce, che cambierà alla fine del prossimo anno, andasse a un tedesco o comunque a una persona in sintonia con le idee tedesche, l’Unione non riuscirebbe a superare una eventuale crisi finanziaria: solo la linea Draghi l’ha salvata dall’ultima. E date le condizioni della finanza mondiale, non ci si deve chiedere “se” una nuova crisi scoppierà, ma “quando”.

 

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