Cose di questo mondo

Quali e quante storie potrebbero raccontarci i milioni di immigrati clandestini sul disperato viaggio che li ha portati nei paesi occidentali? Milioni e di ogni tipo, ma probabilmente ci sorprenderebbero ascoltatori meno partecipi di quanto sarebbe lecito aspettarsi, perché troppo distanti e lontani dalla nostra esperienza sarebbero quei racconti e quelle vicende. Con Cose di questo mondo Winterbottom ha provato a superare questa distanza percorrendo insieme a due giovani afghani di Peshawar, città di frontiera tra Pakistan e Afghanistan, la lunga strada che li separa da Londra, dove i due sono diretti. Attraverso Pakistan, Iran, Turchia, Italia e Francia i due avanzano faticosamente in pullman, in auto, in nave, a piedi, nella neve del Kurdistan, percorrendo i deserti dell’Asia centro-occidentale, nascosti in carichi di frutta, rinchiusi in container soffocanti, aspettando ore o giorni in squallidi appartamenti in attesa del passaggio giusto. È un’odissea dei tempi moderni quella che ci restituisce la camera a mano del regista inglese, senza eroi né divinità e in cui è la cruda e scomoda realtà a prendere il sopravvento sulla finzione e sull’epica. Perché il viaggio dei due cugini è un viaggio vero: Winterbottom li ha portati con sé utilizzando passaporti pakistani falsi, superando difficoltà di ogni tipo e costruendo il film lungo la strada. È chiaro che in queste condizioni non ci possa essere una vera e propria storia, perché la narrazione finisce per ridursi a un esile filo che lega tra loro frammenti di vita, storie minime, scarni episodi che si susseguono a volte in maniera anche confusa. Ciò che ne scaturisce è un film bellissimo, traboccante di un verismo mai di maniera perché costantemente mitigato da uno sguardo antinaturalistico in cui emerge con forza la vicinanza del regista alle vicende dei due giovani emigranti. Cose di questo mondo riesce a farci capire meglio, come raramente ha dimostrato di saper fare il cinema, cosa rappresenta per queste persone il miraggio dell’occidente e quanto sono disposti a soffrire pur di raggiungerlo. E vale la pena raccontare la sorte del più giovane dei due protagonisti, il sedicenne Jamal che, grazie al film, a Londra è arrivato davvero, ma la cui domanda di asilo è stata rifiutata dal governo britannico. Gli è stato concesso solo un permesso speciale che lo obbligherà a lasciare l’Inghilterra il giorno prima del compimento del diciottesimo anno di età, magari per tornare a quel campo profughi che lo ha visto nascere, crescere e poi fuggire per cercare una vita migliore. Regia di Michael Winterbottom; con Jamal Udin Torabi, Enayatullah. Cristiano Casagni

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