Cosa resta di Maria Callas

La mattina del 16 settembre di trent’anni fa la divina Maria, o meglio quello che del personaggio Callas rimaneva, si sentì male nella grande e desolata casa parigina, dove viveva in assoluta solitudine. Un collasso forse per i troppi medicinali con cui cercava di soffocare la tristezza, una morte tra le braccia della fida cameriera Bruna. A 53 anni usciva dalla scena della vita – dal palcoscenico se n’era andata dopo una Tosca londinese del 1965, che evidenziava (ne rimane una parte in video) il suo stato psicofisico logorato, ma ancora la grande potenza interpretativa. Poi, un funerale veloce e quelle ceneri sparse nell’Egeo, sembra, secondo un suo testamento. Infine, la dispersione degli oggetti, di qualsiasi cosa le fosse appartenuta, nel gelo di un’asta pubblica; lo sfruttamento mediatico, anche dopo la scomparsa, con le interviste ai veri e falsi amici, le rivelazioni, le inutili biografie, quasi mai serie. Il mito rimane. Perché se del corpo nulla resta, la voce tuttavia è quanto mai viva e potente, scuola per tutti gli artisti del canto venuti dopo di lei. Maria è stata un personaggio grande, e triste. Un’infanzia di emigranti greci a New York, una vita familiare difficile – contrasti permanenti con la madre, che a fatica ne accettò la nascita -; la gavetta dura di cantante, che ha conosciuto la fame, il dolore per un corpo sgraziato sui cui tuttavia Dio – su questo lei non ha mai avuto dubbi – aveva posto il dono della voce. Arriva all’Arena di Verona il 2 agosto 1947e debutta in Gioconda. Una figura fisica imponente, una voce che strideva con i soprani bamboleggianti o lirici del tempo, e che stordiva un pubblico non abituato ad un canto che univa agilità virtuosistica – dovuta ad uno studio lungo e ostinato, perché Maria era una vera musicista – a potenza drammatica naturale, istintiva. La Callas infatti aveva il teatro nel sangue. La sua voce aguzza, penetrante, molto estesa, ma non bella, veniva amplificata, sottolineata da gesti ampi, espressivi delle mani, dal modo unico di entrare in scena, da quegli occhi neri e forti capaci di dire tutto di un personaggio. Una rivoluzione, all’epoca.Un ritorno alle grandi cantanti dell’Ottocento, la Malibran, la Pasta, che avevano creato le figure tragicamente sublimi di Norma o di Lucia, dando loro l’anima come desideravano i loro autori, Bellini e Donizetti. Bellini, in particolare: Maria era quasi convinta, in certi momenti, che il grande Catanese avesse scritto le sue opere solo per lei. Difficile farsi accettare, nei primi anni Cinquanta, da pubblico e critica. Allora, facevano testo i soprani come Renata Tebaldi, voce d’angelo, pura e pulita. Alcuni, del pubblico o della critica, le sono sempre stati ostili. Le interpretazioni di Maria erano fatte apposta per dividere, passionali, aggressive, totalizzanti com’erano. La Callas non era donna di forte cultura, ma possedeva un istinto formidabile che, unito ad una tenacia fortissima, ad uno studio indefesso, alla volontà di primeggiare, la rendevano unica. Di qui, o si stava con lei, o si era contro di lei. Ma per arrivare ad un riconoscimento aveva dovuto lottare. Il contatto, poi sfociato in matrimonio, con l’industriale veronese Meneghini e soprattutto l’intuito di un grande direttore d’opera come Tullio Serafin l’avevano imposta alla Scala. Dove, a metà degli anni Cinquanta – i migliori della carriera – era diventata la regina. I personaggi prediletti, infatti, erano tutti, in realtà o potenzialmente, delle regine. Lady Macbeth o Anna Bolena, Norma o Lucia, Violetta o Tosca, per citare quelli più amati, vedevano la Callas completamente trasformata in loro appena saliva sul palcoscenico: Maria non esisteva più, diventava, era un’altra persona, cui il canto dava vita insieme ad una recitazione solenne di vera tragica. Nessuno era da decenni abituato ad un tale potenza e veemenza interpretativa che scuoteva il pubblico, lo incantava e lo portava quasi fuori di sé: si capiscono meglio i furori dei fans, e la costruzione del personaggio Callas che Maria ha curato progressivamente, puntando anche all’aspetto esteriore, ad una mondanità di vita che ne ha consumato la voce e allontanata da quell’ideale di bellezza assoluta che tramite la musica era la sua vera vita. Di qui, l’infelicità che ha cominciato a possederla dagli anni Sessanta in poi, fino alle lunghe notti parigine dove, insonne, ascoltava la Callas di un tempo, incapace di uscire da un buio dell’anima e da quella notte musicale che l’aveva tutta posseduta. Al di là della vicenda umana, infatti, la storia di Maria Callas appare quella tipica dei grandi artisti che pagano il talento unico con una progressiva perdita di luce interiore. Oggi, un film come Callas assoluta, presentato alla scorsa Mostra del cinema veneziano, le biografie fresche di stampa – come quella di Nadia Stancioff (Perrone editore) -, una mostra alla Scala fino a metà novembre, ne mantengono vivo il ricordo. Ma non ce n’è bisogno. Lei è rimasta nelle incisioni. Si ascolti, per tutte, una sola, così sua, la Casta diva belliniana. Qui amore dolore preghiera sospiro sono fuse in un arco melodico che dalla terra sale al cielo, fremente e puro, verso una bellezza superiore. È la musica di Bellini ma è forse anche il ritratto più vero dell’anima di Maria Callas. In questo canto, lei continua a vivere.

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