Cosa è la rotta balcanica?

Nel glossario quotidiano dei mezzi di comunicazione ricorrono espressioni ormai familiari che ripetiamo senza porci troppe domande. Ma ne conosciamo il significato? Intervista a Gianfranco Schiavone, presidente di ICS Consorzio italiano di solidarietà – Ufficio rifugiati onlus Trieste
rotta balcanica
Rotta balcanica (AP Photo/Vadim Ghirda)

Chiediamo qualche chiarimento sulla rotta balcanica a Gianfranco Schiavone, studioso di migrazioni, noto ai lettori di Città Nuova, già vice presidente dell’ASGI e presidente di ICS Consorzio italiano di solidarietà – Ufficio rifugiati onlus Trieste.

Cosa è la rotta balcanica?
All’interno dell’Europa c’è un ampio spazio sociale e geografico che da almeno 25 anni è attraversato da buona parte dei rifugiati che arrivano da zone di conflitto e persecuzioni in Asia e in Medio oriente. Se guardiamo le statistiche, vediamo che la maggioranza di coloro che in Europa vengono riconosciuti come rifugiati giungono proprio attraverso la rotta balcanica e provengono da Siria, Afghanistan e Iraq. Ma a dire il vero questa situazione in Italia è poco studiata e passa sottotraccia anche se questa via di ingresso nell’Unione è molto utilizzata.

La Commissione europea nel mese di dicembre 2022 ha presentato il Piano d’azione dell’Unione europea sui Balcani occidentali. Di cosa si tratta?
È un documento che si allinea a quanto già scritto nel Patto per le migrazioni, purtroppo. L’orientamento dell’Unione europea è quello di cercare di fare nell’area balcanica quello che ha fatto con altri Paesi fuori dall’Unione e dall’Europa, come ad esempio in Turchia: ossia trasformare questa regione in una grande area di confinamento dei rifugiati, pagare questi Paesi perché svolgano due compiti che sono strettamente connessi: tenersi i rifugiati che non si vuole che arrivino in Ue; e poi collaborare in ogni modo possibile ai respingimenti ai confini esterni dell’Unione al fine di attivare la politica dei respingimenti in parte già avviata. Per realizzare questi obiettivi si prevede la costruzione di strutture di accoglienza per i rifugiati nei Paesi balcanici che non sono della Ue. Purtroppo in questo documento non si parla assolutamente di “politiche di asilo”, non c’è nessuna ipotesi di aiutare questi Paesi a diventare accoglienti per i richiedenti asilo e di prevedere percorsi di integrazione sociale, anche perché non è questo l’interesse dell’Unione che vuole solo che le persone stiano al di fuori dei propri confini, in qualunque modo ciò avvenga. E sappiamo che il modo che l’Unione ritiene più efficace a realizzare il suo scopo sono i campi di detenzione, previsti in questo documento. Si tratta di campi di detenzione (di fatto o di diritto) e comunque saranno luoghi di segregazione dei rifugiati.

Possiamo quindi ipotizzare che le persone che percorrono la rotta balcanica potrebbero restare per sempre in questi campi di detenzione?
Sì, infatti il termine adatto da utilizzare è quello di campi di confinamento, perché di fatto diventano campi di isolamento, perché l’obiettivo è quello di bloccare le persone che hanno un bisogno di protezione internazionale al di fuori della Ue, ben sapendo che dove vengono confinate le persone non hanno nessuna prospettiva: non possono tornare indietro, non c’è possibilità di reinsediamento nell’Unione europea perché in questo documento i reinsediamenti non sono previsti e non c’è nemmeno la previsione di una politica di integrazione sociale all’interno dei Balcani. In questo caso l’Unione potrebbe prevedere una quota molto contenuta di persone da accogliere lì e oltretutto con un processo molto lento. Ma la Ue sa bene che quelli dell’area balcanica sono Paesi fragili, con difficoltà economico-sociali e spesso ancora lacerati da instabilità interne, pensiamo alla Bosnia Erzegovina. Quindi non finge nemmeno di ipotizzare un percorso di inclusione di queste persone. E quindi sì, è un percorso di vero e proprio confinamento.

Il centro di Lipa, in Bosnia, rientra in questa politica dell’Unione?
Lipa è un esempio quasi perfetto di questa strategia. Il centro non è chiuso ma di fatto è un centro di confinamento. Si trova su un altopiano a 800 mt di quota, dista 30 chilometri dall’area urbana più vicina: le persone lì sono in una specie di luogo sospeso dove esiste la possibilità di uscire durante il giorno ma le persone non hanno dove andare e cosa fare. C’è un isolamento dal contesto sociale attorno e c’è la radicale impossibilità di svolgere una vita di relazione, di entrare in contatto con la comunità locale, di trovare un lavoro, di mandare i propri figli a scuola. Sono situazioni che possono degenerare in una detenzione di fatto. Adesso lì a Lipa è in costruzione un padiglione specifico per la detenzione che prima o poi − con qualche normativa che sarà emanata − verrà imposto alla Bosnia di applicare in alcune situazioni che saranno definite. Ma in ogni caso per far funzionare un campo di confinamento non è necessario prevedere la detenzione in senso giuridico: è sufficiente creare dei centri in aree con ampi spazi vuoti intorno – che in quelle zone non mancano – e con una società civile molto frammentata e debole. Nel cantone di Biach, che è quello più interessato dal fenomeno in questi anni, il problema è stato risolto creando questa mega struttura che è il prototipo dei campi di confinamento.

L’Italia cosa può aspettarsi dalle riunioni dei prossimi Consigli europei?
L’Unione europea andrà avanti nella direzione della politica di esternalizzazione verso Paesi terzi e non si opporrà all’Italia, ad esempio, per quello che sta facendo con la Libia, che è una forma di confinamento in un Paese terzo, anche se molto più violenta di quella che avviene sulla rotta balcanica o verso la Turchia. Non prevedo che prossimamente potranno esserci grossi cambiamenti da questa linea. L’Unione sta vivendo una contraddizione molto profonda che non si sta risolvendo, anzi in questi anni si è congelata, e cioè il fatto che è bloccata da anni una riforma effettiva della normativa europea – il Regolamento Dublino III – che preveda un principio di equa ripartizione delle responsabilità e quindi anche di equa ripartizione delle presenze. Il quadro è chiaro e ben delineato da almeno due anni e quello che si dice nelle riunioni del Consiglio europeo sono delle varianti dello stesso programma generale che punta tutto esclusivamente sulla esternalizzazione delle frontiere e delle procedure e sul confinamento delle persone nei Paesi terzi. Tutto ciò che avviene all’interno dell’Unione è solo l’accelerazione delle procedure e la compressione delle garanzie per i profughi. Nulla che abbia a che fare quindi con un meccanismo di solidarietà intra-europeo.

Sulla rotta balcanica vedi anche il video dibattito promosso nel 2021 su cittanuova.it

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