Cosa farebbe oggi il buon samaritano

Intervista a padre Fabio Baggio, sottosegretario della sezione migranti e rifugiati del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, che ha pubblicato il volume «Luci sulle strade della speranza», con una raccolta di scritti di Francesco, in cui il papa ricorda come «gli esodi drammatici dei rifugiati» siano stati «un’esperienza che Gesù Cristo stesso provò... quando dovettero fuggire in Egitto per salvarsi dalla furia omicida di Erode».

Il volume ha nel titolo le parole luci e speranza, che spesso non si associano alle storie dei migranti. Perché questa scelta?
Nella raccolta dei documenti magisteriali sugli insegnamenti di papa Francesco, abbiamo cercato di cogliere l’intenzione fondamentale del pontefice, che è quella di gettare un po’ di luce su avvenimenti, storie, persone che normalmente passano nell’anonimato. Nello stesso tempo abbiamo voluto raccogliere, nelle parole del pontefice, non solo l’aspetto di denuncia – “dov’è tuo fratello?”, per ricordare la predica di Lampedusa, “sono forse io il responsabile…”, l’accusa alla globalizzazione dell’indifferenza – ma anche le altre parole, che sono parole di speranza lì dove il santo padre ci parla di storie positive, di opportunità che le migrazioni offrono e di riconoscimento dei contributi che ci possono dare – e di fatto stanno dando – con molta generosità.

In uno dei discorsi contenuti nel volume il Papa parla della parabola del buon samaritano. Come aiutare le persone a farsi ‘prossimo’ dei più deboli?
Il povero malcapitato trovato sulla strada dal buon samaritano non è soltanto il migrante, il rifugiato, ma sono tutti quegli abitanti delle periferie esistenziali a cui il santo padre fa spesso riferimento. L’attenzione che gli deve essere data nasce sempre da un sentimento empatico e dal riconoscimento del disagio, della vulnerabilità in cui si trova l’altra persona. Ciò è più difficile quando all’altra persona mancano le parole per esprimere quello che sente, viene da una cultura diversa, entra in gioco la vergogna oppure la timidezza, il dramma enorme vissuto durante un viaggio: parliamo di violenze, abusi, che portano a non avere fiducia nell’altro e rendono l’opera del buon samaritano ancora più difficile. Lì deve entrare la capacità o, se vogliamo, l’umiltà di rimettersi in gioco per imparare le metodologie caritative che non sono necessariamente le stesse che abbiamo utilizzato nel passato: c’è qualcosa in più da imparare.

Quali sono i progetti che il vostro Dicastero sta sviluppando?
La nostra sezione, pur essendo inserita all’interno del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, dipende direttamente dal santo padre e i nostri destinatari sono migranti, rifugiati, richiedenti asilo, sfollati interni e vittime della tratta. Verso queste persone cerchiamo di indirizzare l’attenzione delle chiese locali, perché ad esse è affidata l’azione pastorale concreta. Cerchiamo di aiutare le chiese nella comprensione dei fenomeni migratori, delle vulnerabilità, ma anche delle opportunità che sono insite nel fenomeno, per poterli aiutare a progettare un’azione pastorale adeguata e gestita nei tempi a volte urgenti. Cerchiamo di sostenere la loro sollecitudine pastorale attraverso strumenti di formazione come la raccolta di cui abbiamo parlato o il nuovo documento “Orientamenti pastorali sulla tratta”, che cercano di dare una linea comune di azione. L’ultimo punto è quello di promuovere la cooperazione fra le chiese locali. Parlando di un fenomeno che molto spesso è transnazionale. È ovvio che l’azione deve mettersi in comunicazione, deve essere sempre coordinata con gli altri attori: una chiesa di origine, una chiesa dei paesi di transito, una chiesa di destinazione, devono lavorare insieme in modo che la tensione pastorale sia un continuum garantito anche dal continuo dialogo fra i coordinatori.

I giovani, anche durante il Sinodo, si sono interrogati sul tema delle migrazioni. Come aiutarli ad avere una prospettiva di speranza?
Le migrazioni sono un fenomeno complesso che ha bisogno di uno studio approfondito. Siamo stati invitati al Sinodo, p. Michael Czerny ha partecipato a tutti i lavori sinodali; io ho partecipato a diversi convegni, a lezioni con giovani universitari. Vorremmo chiedere ai giovani di non fermarsi alle generalizzazioni, di non essere ingenui di fronte a tanti motti che vengono messi in giro. L’invito è quello di studiare il fenomeno, di conoscerlo profondamente, ma il secondo invito è quello che fa il santo padre: non fermiamoci al fenomeno, andiamo alle persone, che non sono numeri. La cultura dell’incontro ci obbliga a riprendere il tema della relazionalità. Non posso avere un’opinione se non conosco direttamente la persona ed è questo l’invito che il santo padre fa: andare all’incontro dell’altro. Lo sconosciuto, sempre, produce timore; il conosciuto, invece, può invogliare alla carità e all’amore.

Lei è un religioso scalabriniano: in base alla sua esperienza personale, in che modo ritiene che le persone provenienti da altri paesi possano arricchire la società?
Le parlo di uno studio che ho effettuato in occasione del mio dottorato. Mi sono concentrato soprattutto sull’immigrazione italiana in terra argentina tra il 1875 e il 1915, uno dei grandi flussi migratori italiani di quell’epoca. Ho dedicato un intero capitolo al contributo della religiosità degli italiani alla crescita della chiesa argentina, sottolineando da una parte la ricchezza delle devozioni, dei modi espressivi e, dall’altra, la fioritura delle vocazioni religiose e sacerdotali portate dalle famiglie italiane, ma anche un risveglio enorme del laicato. Questo non è un fatto solo del 1800: san Giovanni Paolo II, durante un Angelus, rivolgendosi ai nostri cari filippini, ha detto: “il vostro lavoro domestico molto spesso vi porta a contatto con le famiglie dove potete portare la vostra fede”. Ancora oggi i cattolici che vengono dall’Asia o dall’Argentina diventano gli animatori delle nostre comunità.

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