Cosa ci impedisce di cambiare

Evolvere verso una condizione di vita migliore a volte è difficile, ma spesso non è solo pigrizia: i modelli e gli strumenti della psicologia ci aiutano a capire cosa c'è dietro la nostra resistenza al cambiamento

Perché a volte è così difficile produrre un cambiamento nella nostra vita? Perché spesso anche se stiamo male in una situazione personale, di coppia, comunitaria non riusciamo a modificarla?

Il modello degli stadi del cambiamento di Prochaska e Di Clemente ci aiuta in questo senso a comprendere cosa c’è dietro le nostre resistenze al cambiamento. Secondo questo modello, affinché una persona abbia la motivazione a cambiare occorrono tre dimensioni. Linterazione tra questi tre fattori (disponibilità, frattura interiore e autoefficacia) produce la spinta a cambiare.

La disponibilità descrive se e quanto la persona è disponibile a modificare il comportamento o a prendere una decisione.

La frattura interiore corrisponde al disagio che la persona sperimenta per lo stato in cui è. Il concetto di frattura interiore trae origine dalla teoria della dissonanza cognitiva e può essere definito come la percezione delle contraddizioni esistenti tra la propria attuale condizione e le aspirazioni, i valori e le mete ideali: in poche parole il divario fra il sé reale e il sé ideale, fra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere.

«Vorrei superare questa sbandata che mi ha fatto allontanare da mio marito ma non credo di avere le energie per farlo – dice F. – «Vorrei superare quell’esame all’università ma non riesco a concentrarmi nello studio» dice R. Questa consapevolezza dell’incompatibilità fra la situazione presente e limmagine di sé può essere molto dolorosa per la persona ma è una grande spinta al cambiamento.

Poi c’è il terzo fattore: l’autoefficacia, ovvero la fiducia nella propria capacità di intraprendere un cambiamento e di portarlo a compimento.

A questo punto è lecito chiedersi: se queste tre dimensioni non sono sufficientemente presenti come fare per potenziarle? Come aiutare una persona a cambiare il suo comportamento laddove la persona lo vuole ma sembra bloccata?

Uno strumento estremamente utile è la bilancia decisionale. Consiste nella valutazione comparativa degli aspetti positivi e negativi di un particolare comportamento, dei pro e dei contro per il cambiamento e dei pro e dei contro del restare nella situazione in cui si è. Con la bilancia decisionale si può arrivare a scoprire che esistono paradossalmente dei vantaggi a restare in una situazione che apparentemente si vorrebbe cambiare.

Facciamo un esempio. Esistono contesti familiari o comunitari in cui una persona ricopre il ruolo di “vittima”o di “persona fragile, da tutelare”. E questo ruolo non cambia, nemmeno col tempo, nemmeno con un lavoro individuale di psicoterapia. Qual è il vantaggio che deriva a quella persona dal continuare a rivestire quel ruolo, quale il vantaggio di restare in una situazione di impotenza e di fatica ad emanciparsi come adulto assumendosene la responsabilità? Paradossalmente può apparire molto vantaggioso esercitare il ruolo di vittima da “trattare con i guanti” o esibire un vulnus irrecuperabile come lasciapassare per i propri comportamenti o come bonus per un trattamento di favore: “ho sofferto tanto, quindi ho diritto a lamentarmi o ad essere trattato con estremo riguardo, ho diritto ad essere privilegiato nelle relazioni per la mia condizione”.

Quando questo accade, occorre comprendere in un’ottica sistemico-relazionale come mostrarsi fragili o vittime può divenire una modalità di interazione con gli altri significativi, finalizzata ad assumere il controllo della relazione, talvolta in accordo implicito con altre persone coinvolte nella relazione stessa. Può accadere cioè che una persona manovri” il comportamento dellaltro agendo un malessere e che tale malessere, quindi, venga a fornire un potere e un vantaggio secondario alla persona, che è proprio quello di ottenere il controllo della relazione.

Questo doppio aspetto del comportamento, da un lato come espressione di una situazione di sofferenza, e dallaltro come dispensatore di vantaggi secondari, crea una situazione paradossale da cui può essere estremamente difficile uscire.

In conclusione, resistere al cambiamento è sicuramente un atteggiamento comune, quasi una naturale propensione a preferire ciò che si conosce, ciò che è sicuro, rispetto a ciò che non si conosce e che potrebbe perciò rivelarsi dannoso. Perciò, può essere frequente che, pur trovandoci in una situazione che ci fa soffrire, sperimentiamo pur sempre un equilibrio, stabile e conosciuto, e tendiamo a conservare l’omeostasi.

Cambiare, invece, significa spendere energie, esporsi a nuove opportunità e quindi a nuovi rischi e pericoli, osare sperimentare nuove modalità di stare con gli altri e nel mondo. Nel caso di cui sopra, per esempio, cambiare significherebbe non avere più il vantaggio di controllare il circondario col proprio malessere, bensì, non usarlo più come gancio per gli altri, scegliendo invece di entrare alla pari nelle inevitabili difficoltà relazionali.

«Da quando mio marito ha smesso di bere è sempre fuori, prima quando beveva non ero contenta che lui bevesse, ma almeno stava a casa con me», dice S. È stato fondamentale per S. comprendere che l’affrancarsi del marito da un comportamento estremamente disfunzionale chiedeva anche a lei un cambiamento: perdere il vantaggio di controllarlo.

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