Cortina, cadono i larici al suono del violoncello

È iniziato l'abbattimento degli alberi per la costruzione della nuova pista da bob in vista delle Olimpiadi. Tra le proteste di una società civile che si è vista, insieme al Cio, in tutto e per tutto scavalcata su questa tematica
Un momento della manifestazione degli ambientalisti contro la costruzione della nuova pista da bob per le Olimpiadi 2026, sul luogo dove sorgeva la vecchia pista, a Ronco, Cortina D'Ampezzo (Belluno), 19 febbraio 2024. Foto: ANSA / Marco Dibona.

La si potrebbe quasi paragonare alla tela di Penelope: parliamo della pista da bob di Cortina in vista delle Olimpiadi 2026, che ha ormai assunto i contorni di un “fare e disfare” ai limiti del mitologico. Allo stato attuale la pista si farà; però il percorso è stato e continua ad essere così tortuoso da destare non poche perplessità, al di là di come la si possa pensare in merito.

In una tale telenovela, risulta utile quantomeno il riassunto delle puntate precedenti: partendo dal 2019, anno in cui le Olimpiadi invernali del 2026 vengono assegnate congiuntamente a Milano e Cortina. La “Regina delle Dolomiti” viene individuata come sede appunto delle gare di bob, skeleton e slittino; con un progetto di rifacimento della pista “Eugenio Monti”, utilizzata per le Olimpiadi del 1956, e dismessa ormai da anni. Il dossier prevede una spesa di 47 milioni di euro, più il villaggio olimpico e le altre infrastrutture necessarie.

Il progetto inizia però a suscitare da subito diverse perplessità: dai costi già elevati, che arrivano poi a lievitare fino a 128 milioni di euro, a cui si aggiungeranno poi esorbitanti spese di gestione (1,4 milioni di euro l’anno, che il sindaco di Cortina da subito mette in chiaro di non poter sborsare); alla contrarietà prima solo di Cai, associazioni ambientaliste e opposizioni, e poi di frange sempre più ampie dell’opinione pubblica e finanche di amministratori locali, ad un’opera altamente impattante sotto il profilo ambientale, e candidata certa al destino di “cattedrale nel deserto” (come già successo alla pista torinese di Cesana, dismessa pochi anni dopo i giochi) dato che i praticanti di bob, skeleton e slittino in Italia sono solo una quarantina; ai primi tre bandi di gara andati deserti, perché nessuna impresa vuole assumersi sì l’onore, ma soprattutto l’onere e il rischio, di costruire un’opera così, in tempi di costi in crescita e con un cronoprogramma strettissimo; alla contrarietà dello stesso Comitato Olimpico Internazionale (Cio), che a fronte di una tale situazione afferma di preferire l’utilizzo di opere già esistenti come St. Moritz o Innsbruck.

Sul fronte opposto il presidente del Veneto, Luca Zaia, che ha sempre fatto delle Olimpiadi e della pista da bob una delle sue battaglie di bandiera; il ministro Salvini; la locale Confindustria, che vede nella drastica diminuzione delle gare che si farebbero a Cortina in caso di “perdita” della pista (ne resterebbero appena 8, contro le 65 della Lombardia e le 31 di trentino e Alto Adige) un pesantissimo danno per l’economia locale, che già ha molto investito sulle Olimpiadi, e si aspetta un ritorno non solo in termini di presenze ma anche di infrastrutture che rimangano sul territorio (e che in molti casi comunque, come la “vitale” variante stradale di Longarone, non sarebbero pronte entro il 2026: tanto più c’è chi teme dunque che, senza la “spinta” del flusso turistico dei giochi, alcune di queste opere rimarrebbero solo delle grandi incompiute).

A fine 2023 pare messa la parola fine, con la contrarietà sancita dal Cio («Il Cio crede fermamente che il numero di piste esistenti, a livello globale, sia sufficiente […] e nessuna sede permanente dovrebbe essere costruita senza un futuro chiaro e fattibile d’uso»), e le proteste di amministrazione regionale e governo per lo “scippo” delle Olimpiadi. Ma le carte vengono di nuovo sparigliate pochi giorni dopo, con un secondo bando di gara per un progetto più “leggero” da 81 milioni di euro (che arrivano a 120 con le opere accessorie). Ad aggiudicarselo è l’impresa parmense Pizzarotti, che presenta un cronoprogramma strettissimo – la pista deve essere pronta a marzo 2025 per fare i collaudi, e concludere poi il lavoro entro fine anno in 625 giorni totali. Tempi che suscitano perplessità in quanto alla reale fattibilità della cosa, e al rispetto di sicurezza e diritti dei lavoratori.

Tra mille polemiche per come Cio, società civile e tanti altri siano stati “scavalcati” da quella che già da anni appare come una questione di principio politico ed economico, viene immediatamente aggiudicato alla ditta Ghedina di Cortina l’appalto per l’abbattimento del bosco di 500 larici secolari dove la pista dovrà sorgere. L’inizio dei lavori tarda di qualche giorno, ironia della sorte, per la pioggia: in tempi di cambiamento climatico, neanche a febbraio a Cortina, a 1224 m sul livello del mare, la temperatura arriva a scendere sotto lo zero. Tanto che la pista prevede anche una copertura, appunto perché la pioggia non rovini il fondo ghiacciato (che sarà evidentemente costosissimo mantenere).

Il 21 febbraio il rumore delle motoseghe viene accompagnato dalle note del violoncello di Mario Brunello, che si unisce ad associazioni come Mountain Wilderness, rappresentanti dell’opposizione e semplici cittadini nel manifestare pacificamente il suo dissenso a quanto sta accadendo. Il suo intento dichiarato è quello di dare voce a questi larici, che voce non hanno. Da Simico, la società incaricata della gestione dei Giochi, assicurano che tutto è in regola in quanto a sostenibilità ambientale e compensazione delle emissioni; punto tuttavia criticato dai contrari alla pista, in quanto i nuovi alberi che si prevede di piantare saranno in grado solo fra molti anni di assorbire la stessa CO2 che il bosco di larici assorbiva. Proprio il 21 febbraio è in visita ai cantieri anche il Cio, il cui direttore esecutivo, Christophe Dubi, incontra la consigliera regionale veneta di Europa Verde Cristina Guarda; la quale dichiara alla stampa che Dubi ha confermato che la posizione del Cio non è cambiata.

I lavori quindi, dicevamo, vanno avanti; e allo stato attuale la pista si farà. Volendo guardare la luna e non il dito, tuttavia, il “caso pista da bob” è emblematico di una questione assai più ampia: ossia come vogliamo vivere la montagna, in tempi in cui le mutate condizioni ambientali, economiche e sociali impongono di ripensarla. Una montagna in cui il boom economico e dello sci in particolare aveva portato ad un modello di turismo di massa come leva per evitare lo spopolamento delle valli, ma che ora mostra tutti i suoi limiti di fronte alla neve che non c’è più, alle temperature sempre più alte, ai costi dell’energia e ai periodi di siccità che rendono anche l’innevamento artificiale sempre meno sostenibile, al rischio idrogeologico a cui sono sottoposti i versanti disboscati, a residenti che fuggono comunque da territori sguarniti di servizi (perché scuole, ospedali, ecc. non stanno in piedi solo per i turisti pochi mesi l’anno) e che iniziano ad avversare le forme di turismo “mordi e fuggi”, ad una sensibilità diversa anche da parte dei clienti che cercano un modo diverso di vivere e conoscere il territorio (e già da tempo è partita infatti anche una corsa alla destagionalizzazione). Ma anche una montagna in cui è necessaria una progettazione condivisa dell’ambiente e quindi del futuro: cosa che a Cortina, pista di bob o no, è clamorosamente mancata.

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