Corpo a corpo con Geremia, la morte, Dio

Intervista a Demetrio Paolin a proposito del suo ultimo romanzo
Demetrio Paolin

Anatomia di un Profeta (Voland, 2020) è un libro di narrativa che parla di Dio, di più: parla con Dio, come fanno i profeti. Fa male leggerlo, come solo le Scritture fanno. Come la storia di Geremia, con cui l’autore si scontra in un corpo a corpo. Demetrio Paolin trasforma il racconto della morte volontaria di Patrick, bambino polacco di un paesino del Monferrato, in un viaggio al termine della fede, alla sua scaturigine. Sconcia la morte (volontaria) di un bambino (Dostoevskij insegna). Sconcio chiamare suicidio (d’amore) il sacrificio di Cristo.

L’ossessione del nulla e il desiderio di resurrezione (del corpo) si fondono in pagine ardenti. Non sto dicendo la cosa più importante: Paolin ha una scrittura cangiante e meravigliosa. Un romanzo che contiene un saggio che contiene un poema che contiene un romanzo. Ma non è un romanzo (leggetelo, se ne avete il coraggio). Ne parliamo con Demetrio Paolin, l’autore, che vive e lavora a Torino. Collabora con il Corriere della sera, La ricerca della Loescher e Lettera Zero. Ha scritto saggi e romanzi. Nel 2106 con Conforme alla Gloria (Voland) è stato tra i 12 finalisti al Premio Strega. Oltre al suo ultimo romanzo, Anatomia di un profeta (Voland), in questi giorni è in libreria una sua piccola plaquette lirica Il bene vegetale (Blonk).

 

Anatomia di un profeta

Hai scritto: «Credere in Dio significa assumere su di sé tutta la tragedia dell’umano e arrivare al limite del nulla, del non-senso, al limite più estremo del nichilismo e affermare che la fragilità avrà vinto sulla forza. L’essere, che è debole, vincerà sul non-essere, e la carne rivestirà i corpi di chi amiamo. Chiedo al lettore di illudersi per un attimo e di seguirmi in questo salto cieco». Ti ho letto (da credente), ti ho seguito nel salto, che è stato molto buio e non meno commovente. Si cade e sale, verso il nulla e in cielo, avvinghiati al corpo del profeta Geremia. Perché proprio Geremia?

Il libro di Geremia è una delle mie ossessioni, sin dalla giovinezza. Amo i testi compositi, difficili, illeggibili, Geremia non è da meno. Geremia è un profeta suo malgrado, violentato da Dio per profetizzare, disperato tanto da arrivare quasi al suicidio; eppure alcune delle pagine più armoniose e belle della Scrittura sono sue. Ci sono in lui l’abisso e il tormento, che mi hanno ricordato Patrick, nel testo c’è l’uso di una lingua così carnale quasi scatologica, vicina alla voce che volevo per il mio libro. Soprattutto sentivo la sua fede vicina alla mia, così illogica, per nulla mondana, quasi un lasciarsi cadere volontariamente nel vuoto convinti che qualCosa o qualcUno infine ci salvi.

C’è un passaggio “eucaristico” che mi ha toccato: «Ecco la salvezza del mondo: le ossa di Patrick nella terra diventeranno presto alberi e giorni. Saranno nutrimento delle radici e lui, che ha bevuto il diserbante, diventerà nutrimento delle piante. Lui che si è fatto morte diventerà vita, perché Dio gli è entrato dentro. Dio si è incarnato nel veleno potente. Dio ha preso possesso della gola di Patrick e della sua bocca. Dio si è fatto tutt’uno con il suo stomaco». Mi sembra che la tua fede più che incarnata sia “corporea”. Se non risorge il corpo, se la carne, le ossa non risplenderanno un giorno, allora non c’è niente in cui credere. Da cosa nasce questa convinzione (nel libro quasi un’ossessione)? 

Io sono un uomo semplice, leggo la Scrittura in modo semplice, senza allegorie interpretative; per me la resurrezione della carne è una cosa sola: riavere il mio corpo. Sono convinto che le mie ossa si rivestiranno della mia carne, così i miei nervi, così i miei muscoli, e il sangue tornerà a scorrere nelle mie vene. Non nutro simpatia per il cristianesimo spirituale dedito alla morale, all’etica e poco interessato ai novissimi. Per me la fede è dare un’occhiata a ciò “che sarà”, ciò “che è” mi interessa meno.

Leggo: «Perché la salvezza di Dio non è quello che ci si aspetta, il suo annuncio può disfare il mondo che abbiamo vissuto, la salvezza è qualcosa di così violento e sacro, di così estraneo che noi possiamo solo subirne le conseguenze». Non c’è salvezza senza violenza?

Ci culliamo nell’idea di un Dio esangue e timido, ma nessuna manifestazione di Dio è “docile” (basti ricordare Natale 1833 di Manzoni «Sì che tu sei Terribile»). Dio è qualcosa di terribile e bellissimo, così la sua salvezza.

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