Coronavirus, l’esperta: L’unica arma è l’isolamento

Da 20 anni lavora all’Ospedale Spallanzani di Roma, un’eccellenza italiana, specializzata in Microbiologia e Virologia. L’8 marzo è la Festa della donna. Nostra intervista alla dottoressa Alessandra Amendola, una delle virologhe del team di ricercatrici, al 90 per cento donne, dell'Ospedale Spallanzani che hanno isolato, tra i primi in Europa, il nuovo coronavirus in Italia.    

Come siete riuscite ad isolare il coronavirus?

La prima diagnosi l’abbiamo fatta il 29 gennaio, quando sono arrivati i due turisti cinesi che sono risultati positivi al coronavirus. Con il residuo del campione clinico su cui è stato effettuato il test per il coronavirus, tre ricercatrici del nostro team sono riuscite ad isolarlo. È stato possibile perché allo Spallanzani abbiamo personale addestrato, specializzato e attrezzature particolari di laboratorio con un livello 3 di biosicurezza. Il mio è stato un contributo indiretto perché sono responsabile dell’accettazione dei campioni in laboratorio. Al loro arrivo, effettuiamo tutta una serie di controlli che vanno dai dati anagrafici alla tipologia di provette e ai test cui sono destinate; esistono numerosi tipi di provette contraddistinte dal colore del tappo: dietro ogni colore c’è un percorso diagnostico diverso. In accettazione transitano tutti i campioni clinici, sia quelli destinati alle indagini diagnostiche, sia quelli dedicati ad attività di ricerca.

Ci vogliono delle attrezzature particolari per evitate il contagio con il virus?

Ogni giorno ed in ogni situazione lavoriamo seguendo le norme di sicurezza, perché ogni campione clinico potrebbe contenere un agente patogeno. Con il problema del coronavirus abbiamo elevato ulteriormente i livelli di attenzione e sicurezza. Si lavora sempre sotto una “cappa di sicurezza microbiologica” dove un flusso di aria continua impedisce la contaminazione ambientale e dell’operatore. Il virus così non può uscire fuori.

Il coronavirus visto da vicino è così pericoloso?

Il coronavirus sta suscitando paure e psicosi tra le persone. Si diffonde velocemente, può provocare problemi respiratori gravi e coloro che soffrono di patologie gravi o croniche possono non sopravvivere, come del resto accade con il virus dell’influenza. Tuttavia dobbiamo considerare che la maggior parte delle persone guarisce. Per rallentare la diffusione del virus è fondamentale attenersi scrupolosamente al decalogo dei comportamenti promosso dal ministero della Salute e dall’Istituto Superiore di Sanità. Il contributo di ciascuno di noi sarà fondamentale, perché si tratta un virus nuovo: non abbiamo medicine specifiche, né un vaccino; non siamo immuni e l’unica arma è l’isolamento.

Cosa vuol dire Covid‒19?

L’Organizzazione mondiale della Sanità ha dato il nome ufficiale. Covid‒19 ha questo significato: “Co” sta per corona, “vi” sta per virus, “d” sta per disease, cioè malattia, e “19” indica l’anno in cui si è manifestata, nel 2019.

Il vostro gruppo di lavoro è formato in gran parte da donne. Nelle donne c’è una maggiore attenzione alle relazioni, al gioco di squadra?

Le biologhe sono in gran parte donne, e mi è sempre capitato di lavorare principalmente con team femminili. Il lavoro di squadra è indispensabile nel nostro campo, soprattutto quando si fa ricerca. Una persona non può portare avanti un progetto di ricerca da sola perchè sono necessarie molteplici competenze e quindi è indispensabile lavorare in gruppo. Solo in questo modo è possibile ottenere risultati importanti e significativi. Inoltre, senza nulla togliere agli uomini, credo che le donne, grazie ad una maggiore sensibilità combinata all’istinto materno, abbiano una maggiore predisposizione al lavoro di squadra.

Cosa avete provato quando i due turisti cinesi sono guariti?

Una gioia immensa per il contributo che abbiamo dato con il nostro lavoro. L’orgoglio di aver svelato l’identità dell’agente responsabile della loro malattia infettiva. Con questo dato, un medico può scegliere il trattamento farmacologico migliore. Noi non suggeriamo la cura, ma ne scopriamo la causa, e con i dati di laboratorio contribuiamo alla scelta della migliore strategia terapeutica.

Lei è specializzata in ricerche sull’HIV, perché sono stati dati, come cura, gli antivirali per guarire dall’HIV?

È stato fatto un tentativo con alcuni farmaci per HIV perché il coronavirus è un virus ad RNA, proprio come HIV. Sono stati utilizzati anche gli antivirali usati per l’Ebola. I tre pazienti che abbiamo avuto allo Spallanzani sono guariti, ma non sappiamo quanto è stato il contributo effettivo di questi farmaci e quanto è stato quello della risposta immunitaria. Dovranno essere svolti ulteriori studi per comprenderlo e su un numero più elevato di pazienti.

Com’è cambiata la mole di lavoro con l’avvento del coronavirus?

Il lavoro è aumentato tantissimo e non abbiamo più orari di lavoro regolari. I turni di lavoro sono stati triplicati: abbiamo il turno di mattina, quello del pomeriggio e quello di notte. Lavoriamo in mini-team composti da 3 virologhe e 3 tecniche di laboratorio. Ogni giorno eseguiamo un numero di test molto elevato, che richiede lunghi tempi di lavorazione (4-6 ore) prima di arrivare all’esito riportato sul referto. Gli strumenti sono impiegati di continuo e possono lavorare un limitato numero di campioni alla volta. L’emergenza del coronavirus ci sta imponendo grandi sacrifici, ma lo facciamo volentieri, perché dietro una provetta, un campione clinico, c’è una persona che ha un bisogno urgente di cure.

Lei è sposata, ha 1 figlio di 16 anni, da dove nasce la sua passione per la scienza?

All’inizio volevo studiare medicina, ma, poi ho pensato che mi sarebbe piaciuto di più studiare le origini delle varie malattie, soprattutto quelle infettive che sono provocate da virus e batteri: agenti invisibili che stanno fuori e dentro di noi e ho studiato biologia.

Come fa a conciliare lavoro e famiglia? Possiamo dire che «dietro ogni grande donna c’è sempre un grande uomo»?

Effettivamente è molto difficile conciliare lavoro e famiglia, soprattutto quando si fa ricerca o quando ci sono emergenze, come in questo caso, quella del coronavirus. Non ci sono orari. Si può avere la necessità di dover andare al lavoro molto presto e tornare molto tardi. Mio marito spesso si trova a portare avanti la casa. Quando torna dall’ufficio si trasforma in papà, mamma, casalingo e cuoco.

La dott.ssa Amendola, virologa e ricercatrice, ha anche un grande cuore. Si è recata più volte come volontaria in Romania?

Sì, presso la Fondazione Bambini in Emergenza, istituita da Mino Damato dopo aver adottato una bambina rumena con l’HIV. Damato aveva preso contatti con lo Spallanzani per eseguire test specifici su un gruppo di bambini sieropositivi per HIV presenti nel suo centro, sito accanto all’ospedale per le malattie infettive di Singureni. Io sono andata due volte a lavorare in questo centro, proprio in qualità biologa inviata dallo Spallanzani. E’ stata un’esperienza molto forte, toccante, che non dimenticherò mai. Ricordo in particolare un bambino che la notte veniva a dormire con me, nel mio stesso letto, e una ragazzina che ammirava tantissimo il mio giubbotto rosa. L’ultimo giorno, prima di partire, gliel’ho regalato e sono tornata a casa con un doppio maglioncino. Era inverno e faceva freddo, ma ero felice di aver reso contenta, almeno per un po’, quella dolcissima ragazza tanto sfortunata.

N.B. Nel programma A sua immagine di Raiuno sabato 7 marzo alle ore 15 e 55 l’intervista completa.

 

 

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