Corea: l’indipendenza e il genocidio

Visita alla Independence Hall of Korea, a Mokcheon, nel centro del Paese del calmo mattino. La lunga lotta di liberazione contro l'invasore giapponese, all'epoca autore di efferati delitti.
Korea - Mokcheon

Non ci si aspetterebbe proprio di trovare, nel centro della Corea del Sud, a Mokcheon, vicino alla città di Cheonan, un complesso museale come quello della Independence Hall of Korea, il Museo dell’indipendenza. La scelta del sito non è tuttavia casuale. Qui infatti ebbe inizio il “Samil Movement”, una grande ventata popolare alla ricerca dell’indipendenza del Paese dagli occupanti giapponesi, il primo marzo del 1919: vi partecipavano intellettuali e contadini, militari e politici, un popolo intero, insomma.

Nevica, fa freddo, tutto è ghiacciato, i capitomboli sono frequentissimi, ma le scolaresche e le famiglie in visita sono tante: passano da un padiglione all’altro con compostezza ma anche con serenità, quella che viene riassunta in qualche modo nel nome stesso “Corea”, che vuol dire in effetti “Paese del calmo mattino”. L’accoglienza del museo è suggestiva: due enormi lance parallele a sfidare il cielo: si tratta del “Monumento alla nazione”, che non simboleggia in realtà qualcosa di bellico, ma anzi di estremamente pacifico come due mani – alte 51 metri – che si congiungono nella preghiera o come due ali d’uccello pronte al volo verso il cielo. In prospettiva si nota una grande costruzione che appare un tempio e la cima del monte sovrastante, lo Heukseong.

La costruzione in realtà non è votiva, ma è la “Grande sala della nazione”, simbolo del museo: la nazione come la casa di una grande famiglia. Tra l’altro, la costruzione ha introdotto una nuova tradizione architettonica, il tetto alla Matbaejibung, che ha due sole calate, chiudendosi lateralmente con due perfetti triangoli. La hall ospita una enorme statua agli “Indomabili coreani”, che per 5 mila anni avevano sostanzialmente mantenuto la propria indipendenza, prima della tragica stagione del colonialismo giapponese.


Appunto, la stagione dal 1919 al 1945, quella che vide il dominio del Sol levante sul Calmo mattino è la stagione celebrata in questo grande museo. Una stagione che molti storici, non solo coreani, considerano quella in cui i giapponesi hanno perpetrato nei confronti del popolo coreano un vero e proprio genocidio. Qualcosa come 500 mila morti. E milioni di profughi, soprattutto in Manciuria e in Indocina.

Non a caso nei padiglioni del museo – organizzato con estrema perizia e inventiva, con migliaia e migliaia di foto, documenti, oggetti, dipinti, rappresentazioni sceniche a misura d’uomo – si ripercorrono cronologicamente le grandi tappe della storia coreana per arrivare alla rievocazione delle più efferate violenze e delle torture inflitte dall’occupante giapponese al popolo coreano, fino alla liberazione del 15 agosto del 1945.

 

Senza dimenticare, ovviamente, la ferita che si è aperta con la susseguente guerra di Corea, che dal 1950 al 1953 riportò la violenza e la disperazione nel popolo, fino alla separazione traumatica tra le due Coree. Separazione che è una ferita ancora sanguinolenta nel cuore di ogni coreano, nell’unico Paese al mondo che ancora vive separato in due parti. Non a caso, in chiusura del giro del museo, ecco che ci si trova di fronte ad un altro ardito monumento, il “Monumento alla riunificazione” che ospita un grande arco, o piuttosto di arcobaleno, e una enorme campana, la “Campana per la riunificazione”, che pesa la bellezza di otto tonnellate e mezzo per tre metri d’altezza. Il giorno della sospirata unità nazionale verrà suonata. Non prima.


Al termine dell’affascinante percorso museale, in cui ho superato con cautela centinaia di gradini innevati, incrociando gli sguardi di mille e mille persone piene di orgoglio nazionalista, ma anche temprati da decenni di separazione e desiderosi solo di pace e riunificazione, penso alla storia scritta dai vincitori, una storia poco credibile, perché racconta avvenimenti unilateralmente. I coreani hanno subito un genocidio? Lo credo. Ma alla fine del tunnel c’è sempre la riconciliazione, che dovrebbe portare anche alla riscrittura della Storia. Un piccolo monumento all’esterno del museo costruito dai giapponesi vuole proprio ricordare la necessità di una profonda umiltà della Storia e soprattutto dei protagonisti della Storia stessa.

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