Coppa del mondo di cricket e nazionalismo indiano

In Europa – tranne per Inghilterra e Olanda – se n’è parlato poco. Ma nell’ultimo mese e mezzo, nelle nazioni che fanno parte del Commonwealth, ha tenuto banco la Coppa del mondo di cricket, che si è tenuta in India e si è conclusa il 19 novembre. Hanno vinto gli Aussies, l’appellativo con cui si indicano gli australiani
(AP Photo/Aijaz Rahi)

Un trionfo non casuale, ma senza dubbio imprevisto perché tutto lasciava prevedere il successo dato per scontato dello squadrone di casa, da tempo costruito ad hoc e capace di arrivare alla finale vincendo tutte le partite. Gli indiani erano arrivati allo stadio Narendra Modi di Ahmedabad come il dream team predestinato alla vittoria.

Invece, nello stadio che porta il nome dell’attuale primo ministro, nella sua città, nel suo Stato di nascita – il Gujarat –, l’India ha dovuto inchinarsi agli australiani, capaci di cancellare quella che sembrava una semplice formalità: l’ultimo passo verso quella Coppa del mondo che manca all’India dal 2011 e vinta, ancor prima, solo nel 1983. Per capire cosa ha significato questo per il Paese asiatico, i commentatori sportivi di cricket sono andati a scomodare, in termini calcistici, la sconfitta del Brasile di fronte all’Uruguay nel 1950 o, in tempi molto più recenti, nel 2014, la disfatta dei carioca di fronte alla Germania: 1-7 sul suolo patrio. Qualcuno è arrivato a far menzione anche della finale di Berna, quando nel 1954 la Germania Ovest sconfisse per 3 a 2 l’Ungheria, la squadra che aveva affascinato il mondo dell’epoca col suo calcio magico che, nei gironi eliminatori, gli aveva permesso di stracciare i tedeschi 8-3.

Ad Ahmedabad è successo qualcosa di simile, anche se gli australiani non sono certo gli ultimi arrivati. Con questa hanno vinto 6 Coppe del mondo. Comunque, in India, quest’anno – o già da qualche tempo – tutto era stato predisposto per un trionfo degli azzurri (vestono questo colore) di casa. La squadra indiana era, senza dubbio, la più forte in circolazione e lo ha ampiamente dimostrato nel corso della competizione. Soprattutto, l’attuale governo aveva costruito l’organizzazione del torneo senza badare a spese, con nuovi stadi e, soprattutto, con una campagna pubblicitaria martellante che insisteva sulla grandezza dell’India. Tutto in perfetta sintonia con la retorica imperante del primo ministro Modi e del suo partito del Bjp. Lo dimostra, fra l’altro, anche il fatto che il presidente del Board of Control for Cricket in India (Bcci) – la federazione nazionale del cricket – è Jay Shah, figlio del ministro degli Interni dell’attuale governo, uomo forte del partito e dell’ideologia Hindutva, di cui abbiamo parlato molte volte sul nostro giornale. Shah ha solo 31 anni ed è considerato l’uomo più potente al mondo in qualsiasi sport. Controlla, infatti, con la copertura politica assicuratagli dal padre e dall’apparato del Bjp tutto l’ambiente legato al mondo del cricket indiano, attorno al quale ruotano cifre da capogiro, nonostante si tratti di uno sport praticato da un numero relativamente piccolo di Paesi. Con il suo grande fiuto politico, Modi aveva attentamente pianificato alla perfezione la strategia di immagine per il suo Paese, distinta in due fasi. La prima era andata in onda con il G20, tenutosi a New Delhi il 9 e 10 settembre scorsi. La seconda doveva essere la Cricket World Cup che era iniziata il 5 ottobre e ha portato le nazionali presenti in tutti gli angoli dell’immensa penisola indiana.

La cricketmania non si era limitata al Paese. Anche le numerose diaspore indiane nel mondo si sono riunite in vari Paesi (Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda) per celebrare quello che sembrava un trionfo inevitabile. In effetti, più che di un evento sportivo si è trattato di un fenomeno di nazionalismo capace di coinvolgere un’intera nazione in quello che è stato il lancio della campagna elettorale per le prossime elezioni politiche. Modi e il suo partito controllano in assoluto il Paese. Basti pensare che non sono mancati episodi in cui tifosi pakistani, che avevano a fatica ottenuto i visti per partecipare all’evento sportivo, sono stati attentamente monitorati e ripresi quando il loro tifo si manifestava a favore del proprio team. Il sogno ovviamente era quello di un trionfo dei giocatori di Bharat (il nome con cui Modi vorrebbe presto ribattezzare l’India) nello stadio che porta il nome del primo ministro, nella sua città e con l’immagine, che non si sarebbe cancellata per decenni, di Modi che premia l’India vincitrice. Una vera sovrapposizione di cricketmania con nazionalismomania. Non sono mancati inni religiosi – strettamente indù – cantati in occasione della finale.

La sconfitta, del tutto inimmaginabile da un lato, ha lasciato gli indiani nello sgomento: un vero lutto nazionale. Dall’altro, ha offerto ai giornalisti esteri una immagine del Paese nella morsa di una ideologia tutt’altro che conseguente al motto scelto per la presidenza del G20 e dell’evento sportivo dell’anno: vasudhaiva kutumbakam (il mondo è una famiglia, citazione da uno dei libri sacri dell’antichissima tradizione religiosa indiana). Un giornalista indiano ha sottolineato su una rivista di opinione la necessità che in India ci si renda conto che ciò che conta non è vincere trofei, ma trattare gli ospiti come meritano – come la tradizione indiana prevede – e riconoscere il valore sportivo degli avversari anche quando vincono inaspettatamente, ma meritatamente. Una vera débacle per Modi e la sua retorica!

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