Cooperazione per il Sud Sudan

Con poco risalto sui media e dopo 22 anni di conflitto, l’autodeterminazione nel Sudan meridionale è realtà.
Voto in Sudan

Con poco risalto sui media e dopo 22 anni di conflitto, l’autodeterminazione nel Sudan meridionale è realtà. La transizione verso l’effettiva indipendenza è iniziata a seguito di un referendum che ha visto quasi tutti i 10 milioni di abitanti decisi a dar vita ad un nuovo Stato. Il 54º del continente africano.

 

Guardando i fatti, però, forse anche il Nord del Paese dovrà rinascere. Prima il conflitto e oggi la secessione sono stati spiegati dalla differente identità etnico-religiosa: un Nord islamizzato e arabo e un Sud cristiano, animista e “africano”. La nuova situazione, invece, ha fatto emergere interessi economici legati alla gestione delle risorse naturali, con il petrolio estratto nel Sud e poi trasportato verso il Nord del Paese, dove si fermano i benefici di quasi 500 mila barili giornalieri. Suddividere ricchezze e utili diventa allora prioritario per il Sud Sudan, dove la popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e con un debito estero di oltre 40 milioni di dollari e un’insicurezza alimentare cronica.

 

Entro il prossimo 9 luglio vanno definiti l’apparato istituzionale del nuovo Stato, i confini (iniziando dal futuro della regione petrolifera dell’Abyei legata al Nord e controllata dal Sud) e le reti sociali (istruzione, sanità) vitali per un’area a rischio di emergenza umanitaria. Si attendono decisioni sulla moneta che è attualmente la sterlina sudanese, come pure sul flusso di popolazione da Nord verso Sud e viceversa visto che il governo di Karthoum ha proibito la doppia cittadinanza. Strategiche saranno poi le scelte in politica estera, ad incominciare dall’integrazione nella Comunità economica dell’Africa orientale con Etiopia, Kenya, Uganda come partner.

 

A garantire l’indipendenza del nuovo Stato potrà essere solo una vera cooperazione internazionale e non investitori stranieri attratti da un regime fiscale favorevole (le banche dell’area del Golfo sono già a Juba, la neocapitale). Altrimenti c’è il rischio di farne terreno di interessi delle diplomazie occidentali, unite solo per arginare la consistente presenza cinese in quella parte di Africa e non per dare a milioni di persone una solidale stabilità.

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