Conversione ecologica e mondo della finanza

Intervista a Simone Siliani, direttore della Fondazione Finanza etica. Secondo il rapporto Banking on Climate Change 2020: Fossil Fuel Finance, dal 2016 al 2019, 35 tra le maggiori banche del pianeta hanno incanalato 2.700 miliardi di dollari verso società collegate alla filiera dei combustibili fossili, cioè gas, petrolio e carbone.
Borsa di Francoforte

Come incide la transizione ecologica sulle regole della finanza?

In un rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia (International Energy Agency, Iea) presentato a maggio 2021, con riferimento allo scenario del 2050, si afferma che per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi del 2015 dobbiamo smettere immediatamente di finanziare gli investimenti nelle fonti fossili e diminuire drasticamente l’utilizzo delle stesse fonti per il nostro consumo giornaliero. Un dato che cozza con le scelte delle maggiori banche internazionali. Esiste inoltre un serio rischio finanziario perché gli eventi climatici estremi, dagli incendi alle inondazioni, non vengono in larga parte coperti dal sistema vigente delle assicurazioni. L’obiettivo, sempre secondo il rapporto Iea, è quello di avere al 2050 una fornitura di energia elettrica da fonti rinnovabili pari al 90% del totale.

 

Che fare della montagna di crediti legati ai finanziamenti delle fonti fossili che molte banche hanno già “in pancia”? Secondo l’economista Giraud, l’unica soluzione consiste nell’acquisto di tali crediti da parte della Banca centrale europea…

È quanto già avvenuto, in misura minore, con l’acquisto da parte delle banche centrali dei titoli tossici, cioè inesigibili, emersi con la crisi del 2007-2008. Tale intervento però, pur necessario per salvare il sistema mondiale del credito, non ha fatto crescere la responsabilità sociale delle banche, che vanno invece coinvolte nel cambiamento di sistema richiesto. Come emerge dal rapporto periodico sul confronto tra banche europee e quelle etiche di Fondazione Finanza etica, risulta che quest’ultime investono il 76% degli asset nell’economia reale contro il 46% delle altre, che restano legate, in gran parte, a meccanismi speculativi sulle piazze finanziarie.

 

Come si può invertire la rotta?

Ad esempio, tramite le campagne di disinvestimento dei cosiddetti azionisti “critici”, molto attivi all’estero, che cercano di incidere sulle scelte strategiche delle grandi società.

 

Accade anche in Italia?

Come Fondazione registriamo un buon risultato nel dialogo avviato con Generali, il maggior gruppo assicurativo italiano, che ha cominciato a dismettere asset legati alle fonti fossili, non rinnovando, ad esempio, la copertura assicurativa verso alcune società dell’Europa dell’Est legate all’estrazione di carbone. Così anche Enel ha scelto in prevalenza di puntare sul potenziamento delle fonti rinnovabili. Al contrario di Eni e Snam.

 

Ma nel sito di Eni si parla molto delle bioraffinerie di Mestre e Gela…

Le bioraffinerie lasciano intatti i dubbi sul bilancio finale del loro impatto ambientale. E poi parliamo di una percentuale irrisoria degli investimenti se confrontati con gli impegni internazionali nel settore petrolio e gas che Eni, come ci ha detto rispondendo alle nostre domande in assemblea degli azionisti, vuole portare avanti fino al 2024: una strategia in contrasto con l’indicazione dell’Onu di ridurre globalmente del 6% ogni anno, dal 2020 al 2030, il ricorso alle fonti fossili. Senza contare il fatto che l’apertura di nuovi giacimenti comporterebbe un’emissione di CO2 pari a 5 volte quella sopportabile dall’atmosfera del nostro pianeta. Il problema del nostro Paese è il ritardo negli investimenti necessari e già possibili sull’energia eolica e solare. L’Eni punta all’idrogeno “blu”, quello prodotto dal gas con estrazione della CO2 tramite un procedimento, il Css, che non è affatto sicuro e climaticamente neutro. Infatti l’Enel ha deciso di puntare sull’idrogeno “verde” prodotto con le rinnovabili.

 

Eni è stata privatizzata, ma lo Stato mantiene il 32% del capitale. Con quali conseguenze?

Assistiamo al paradosso di uno Stato che si comporta come un qualsiasi azionista, attento alla remunerazione del capitale in un’ottica di breve respiro, senza indicare una finalità sociale all’impresa, di cui ha ancora il controllo, lasciando le scelte strategiche agli amministratori delegati che definiscono, di fatto, la politica energetica del Paese. Restare legati al paradigma aziendalista del massimo profitto in tempi brevi è incompatibile con la lungimiranza richiesta da una conversione ecologica che esige una radicalità di scelte.

 

A proposito di tempi lunghi, il ministro Cingolani ha indicato la necessità di finanziare la fusione nucleare mentre ha aperto al nucleare “verde”.

La fusione lascia inalterati i problemi di sicurezza e gestione delle scorie. Per il resto esiste una preoccupante strategia della Francia, alle prese con i problemi di un grande piano di dismissione, che vorrebbe far rientrare a livello europeo l’energia nucleare da fissione tra le fonti rinnovabili. Una prospettiva che non credo riuscirà a passare nonostante il permanere di forti lobby. Le fonti rinnovabili richiedono lo stesso investimento del nucleare, ma permettono di raggiugere ottimi risultati in tempi molto più brevi.

 

Ma a che serve la transizione ecologica in Occidente se poi Cina e Russia marciano in direzione contraria?

Puntare sulle fonti rinnovabili è una strategia geopolitica vincente che sollecita anche gli altri Paesi. La scelta di restare ancorati alle fonti fossili, propria della presidenza Trump, avrebbe concesso, invece, grandi vantaggi alla Cina.

 

BOX

Banche fossili e azionisti critici

Secondo il rapporto Banking on Climate Change 2020: Fossil Fuel Finance, dal 2016 al 2019, 35 tra le maggiori banche del pianeta hanno incanalato 2.700 miliardi di dollari verso società collegate alla filiera dei combustibili fossili, cioè gas, petrolio e carbone.

Come riportato su Valori, sito web della Fondazione Finanza etica, il rapporto è stato elaborato da alcune organizzazioni attive sui temi della finanza etica: Oil Change International, Rainforest Action Network, BankTrack, Indigenous Environmental Network, Reclaim Finance e Sierra Club.

Al vertice di tale classifica delle “banche fossili” troviamo: JPMorgan Chase, Wells Fargo, Citi e Bank of America. Il maggior finanziatore europeo del settore fossile nel 2019 è il francese BNP Paribas, ma è molto attiva anche la britannica Barclays. Nell’elenco è presente anche la Cina con Bank of China e le banche italiane Unicredit e Intesa Sanpaolo.

Di fronte al comportamento di alcune grandi società la Fondazione Finanza etica promuove l’azionariato critico. Come funziona? Tramite la partecipazione simbolica al capitale di imprese che hanno comportamenti altamente dannosi per l’ambiente o i diritti umani è possibile intervenire nelle assemblee degli azionisti per cercare di denunciare tali comportamenti e chiedere un cambiamento del comportamento. Attività svolta ad esempio verso società che producono armi (come Leonardo e Rheinmetall) o continuano a investire sui combustibili fossili (come Eni).

A partire dal 2018 partecipano all’azionariato critico alcuni investitori istituzionali che hanno in portafoglio migliaia di azioni, tramite la rete SfC – Shareholders for Change..

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons