Conti pubblici, secondo round

L’esperienza di un primo round tutt'altro che esaltante dovrebbe suggerire un cambio di strategia. Un'opinione
ANSA/ALESSANDRO DI MEO

La battaglia dei conti pubblici prende il via con le elezioni del marzo 2018: il nuovo governo annuncia nuovi provvedimenti di spesa e, insieme, riduzioni fiscali, sfidando l’esigenza di tenere in equilibrio il bilancio dello Stato. Un’immediata conseguenza sono forti aumenti dei tassi di interesse da pagare sul debito pubblico e intimazioni da parte della Commissione europea a rimettere i conti a posto. Ciò impone qualche correzione di marcia in sede di manovra di fine 2018: “reddito di cittadinanza” e “quota 100” vengono un po’ ridimensionati e si taglia su qualcos’altro (in particolare viene ridotta la protezione delle pensioni medio-alte dall’inflazione), mentre i tagli alle tasse vengono in gran parte rinviati. Continuano gli attacchi di governo e maggioranza contro i difensori dell’equilibro di bilancio, la Commissione europea, la Francia e la Germania.

Si avvicina la decisione della Commissione europea se aprire una “procedura di infrazione” contro l’Italia per eccesso di deficit. In tanti ci siamo chiesti: come potranno tornare i conti se, in aggiunta ai due maggiori provvedimenti di spesa, si è aperto anche il buco dei maggiori interessi sul debito pubblico da pagare agli spaventati finanziatori? Qui avviene un fatto sorprendente: “reddito di cittadinanza” e “quota 100” vengono richiesti in misura inferiore alle previsioni da parte di coloro che ne dovrebbero essere i beneficiari. Grazie anche a qualche operazione straordinaria e ai maggiori introiti fiscali assicurati dalla fatturazione elettronica, il deficit per il 2019 resta limitato al 2% circa del PIL. Il rapporto debito pubblico/PIL è previsto in ulteriore salita rispetto al 132,2% del 2018, a causa del quasi completo arresto della crescita.

Alla fine la Commissione europea decide di non avviare la “procedura di infrazione”. Anche per questo l’allerta sulla sostenibilità del nostro debito pubblico, che era schizzata dal giallo al rosso nel maggio 2018 ed era rimasta tale fino a metà 2019, scende di un livello stabilizzandosi sul colore arancione (ora lo “spread” è attorno a 200, come a dire che il Tesoro italiano paga interessi di 2 punti percentuali più alti rispetto al Tesoro tedesco). Un po’ meglio va l’occupazione, in lieve crescita (+ 0,4% a maggio rispetto a un anno prima), seppure decisamente più lenta rispetto ai 5 punti percentuali di aumento complessivamente avutisi nel triennio precedente.

Con questi risultati sarebbe facile “sparare” su un governo che aveva prefigurato ben altre prospettive. Pensiamo invece alle possibili scusanti del divario tra annunci e realtà, perché ciò permette di intravvedere qualche possibile sprazzo di luce per il prossimo futuro: l’inesperienza di molti esponenti della maggioranza, difficilmente evitabile quando si verifica un terremoto elettorale come quello del 4 marzo, ma che pian piano si può superare; quel tanto di esagerazione che è difficile evitare in campagna elettorale ma che poi in genere tende ad attenuarsi quando i vincitori si trovano davvero a dover guidare un Paese; un contesto economico internazionale non favorevole che forse potrebbe migliorare …

In termini boxistici, si potrebbe dire che il pugile Italia, impegnato in una sfida contro il tradizionale buon senso economico, ha disputato un primo round poco glorioso, ne ha prese parecchie, ma comunque è riuscito ad arrivare in piedi al suono del gong. Ora però ha un momento di tregua per riprendersi e per immaginare una migliore strategia di gara per il prossimo round.

A raggelare queste speranze, però, provvede il vice-presidente Salvini, il quale, mentre nessuno sa ancora come trovare gli oltre 20 miliardi necessari per evitare l’aumento dell’IVA già previsto per il 2020, propone di squilibrare ulteriormente i conti: «Non è accettabile che l’Italia, secondo Paese manifatturiero dell’Europa e settima potenza economica del mondo, sia costretto ad uno 0,1% di crescita» (N.B. prima dell’insediamento di questo governo il tasso di crescita era al di sopra dell’1%). Di conseguenza: «Ora serve un grande shock fiscale» (ossia un forte taglio delle tasse). Insomma, l’uomo forte dell’esecutivo vorrebbe insistere anche nel round 2019-20 nello stesso avventato schema di gioco già rivelatosi controproducente nel round 2018-19.

L’unica possibilità che ci resta di non finire definitivamente al tappeto è che tutto si riduca ad un’operazione di immagine in cui ciò che viene dato con una mano (aliquote più basse) viene ripreso con l’altra (meno detrazioni e deduzioni, tipo quelle per il mutuo o le spese mediche, o forse altre…); possibilmente senza introdurre distorsioni e disparità, ci auguriamo. Verrà il giorno in cui la politica economica italiana imboccherà la via della serietà, dell’affidabilità, della lungimiranza e della collaborazione con i partner europei, a beneficio di tutti i cittadini?

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