Contemplando Ilaria

Due sono, in Italia, le tombe più celebrate per la loro bellezza: quelle di Ilaria del Carretto a Lucca e di Guidarello Guidarelli a Ravenna, rispettivamente opera di Jacopo della Quercia e di Tullio Lombardo
tomba di Ilaria del Carretto

La sposa di Paolo Guinici, il cui profilo purissimo fiorisce come candido giglio dalle molli pieghe della veste, e l’uomo d’arme di Cesare Borgia, tutto chiuso nella sua ferrea corazza; entrambi stroncati dalla morte nel fiore degli anni, l’una per parto, l’altro assassinato.

Due marmoree beltà che da seicento e più anni non cessano di esercitare un loro fascino particolare, fino ad avere prodotto espressioni discutibili di ammirazione. E si trattasse solo della mania, che avevano certuni, di levigare a forza di baci quei bellissimi volti scolpiti… ancora recente è, invece, l’eco delle offese arrecate ad opera di scriteriati visitatori, per fortuna non alla innocente immagine di Ilaria, ma al suo sarcofago ornato di putti e festoni (Sembra un destino che là dove splende la bellezza si annidi anche una minaccia da parte di chi, per possederla, finisce per distruggerla).

Tutto ciò ha consigliato opportune soluzioni per proteggere sia Ilaria che Guidarello: e mentre già da tempo quest’ultimo è stato trasferito nell’Accademia ravennate di Belle arti, attorno alla prima, rimasta nel transetto del duomo lucchese, dopo un opportuno restauro è stata or ora posta una speciale barriera di cristallo, identica a quella che protegge la Pietà in Vaticano.

Guidarello però, sottratto alla mistica penombra del tempio di San Francesco e separato dal sepolcro che ne racchiudeva le ceneri, a mio avviso ha perso molto della sua suggestione: tanto che non so quante labbra femminili indugerebbero ancora sul suo bellissimo volto contratto dal dolore; volto che appartiene, inequivocabilmente, ad uno da cui la vita è appena fuggita.

Non così è di Ilaria: quella che ce ne dà Jacopo della Quercia è una immagine di vita. È una giovane donna immersa in un placido sonno, colei che riposa sul sarcofago, vegliata da un fedele cagnolino. Una creatura di luce, che da un momento all’altro potrebbe destarsi, solo che la sfiori un alito di resurrezione.

All’artista terreno, che è riuscito a rappresentare nel marmo una impressione di vita non tolta ma latente, non si può chiedere di più.

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