Consegniamo la miseria al passato

Ci sono parole che esprimono un male assoluto. La parola povertà non è però tra queste. Almeno questa è l’idea che emerge dalla lettura del bel libro di Majid Rahnema, Quando la povertà diventa miseria (Einaudi), un autore che non avrebbe di certo condiviso (ed io con lui) lo slogan scelto nell’ultimo G8 scozzese, fatto proprio anche da molte organizzazioni non governative, Making poverty history : Trasformare la povertà in storia, cioè far diventare la povertà solo un ricordo di tempi passati, sarebbe infatti un peccato mortale, e una perdita immensa per l’umanità. Mi spiego. Quello di Rahnema è un libro che coniuga, in modo mirabile, rigore scientifico, passione civile, profondità culturale e capacità narrativa. È un viaggio attraverso le varie forme di povertà, condotti per mano da uno studioso iraniano, che ha lavorato tanti anni in uffici dell’Onu dove ha potuto incontrare e conoscere i molti volti della povertà. Dal libro emerge un pianeta povertà molto articolato, fino a farci intuire il significato della frase paradossale, divenuta qualche anno fa lo slogan di una nuova cultura dello sviluppo: povertà, ricchezza dei poveri. Il libro è complesso, ma ciò che si coglie fin dagli inizi è che la povertà non è solo una maledizione o un problema da estirpare. Nelle pagine di Rahnema si incontrano cinque tipi di povertà: Quella scelta da mia madre e da mio nonno sufi, alla stregua dei grandi poveri del misticismo persiano; quella di certi poveri del quartiere in cui ho passato i primi dodici anni della mia vita; quella delle donne e degli uomini in un mondo in via di modernizzazione, con un reddito insufficiente per seguire la corsa ai bisogni creati dalla società; quella legata alle insopportabili privazioni subite da una moltitudine di esseri umani ridotti a forme di miseria umilianti; quella, infine, rappresentata dalla miseria morale delle classi possidenti e di alcuni ambienti sociali in cui mi sono imbattuto nel corso della mia carriera professionale. Tutte povertà, non tutte esperienze disumane; anzi, il libro ci racconta storie di uomini, e soprattutto di donne, che fattesi liberamente povere per amore degli altri o della verità, sono luminosi esempi di umanità pienamente fiorita. Sulle conclusioni di politica economica e sulla valutazione molto critica dell’economia di mercato si potrebbe discutere, ma le idee qui presentate sono tra quelle profonde che non lasciano indifferenti. Unica nota stonata è la scelta del titolo italiano: molto più fedele al contenuto del libro è l’originale francese: Quand la misère chasse la pauvreté, quando la miseria scaccia la povertà: il libro è infatti una lunga analisi di casi nei quali l’indigenza e la miseria rendono difficile, se non impossibile, vivere le virtù della povertà, poiché la povertà positiva e scelta richiede libertà, e tutte le volte che le ingiustizie degli uomini riducono le libertà distruggono anche le virtù della povertà, che diventa allora davvero sinonimo di miseria e di disumanità, un male solo da debellare. Il messaggio centrale che Rahnema affida al lettore è chiaro e forte: una società più giusta e più umana richiede che si combatta la povertà ingiusta scegliendo, liberamente, stili di vita generosi e solidali, a livello individuale e sociale. Trasformare la miseria in storia, allora, e far della povertà, invece, una nuova parola capace di futuro.

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