Confessioni di un verme

La Resurrezione vista dal basso, molto basso. L'unico testimone oculare, a cui nessuno però ha dato retta, ha lasciato questo scritto che è stato ritrovato sotto terra...

Sono un verme. Non un verme metaforico, come alle volte vi sentite voi, o come alcuni vostri simili, che lo sono veramente. Sono un vero verme, in carne e ossa. Beh, ossa si fa per dire. Immagino dunque che accorderete poca importanza alla mia confessione. Vi capisco. Non so che tipo di verme sono, mio nonno ha cercato di spiegarmelo più volte, a che phylum apparteniamo e così via. Ma io con tutti quei legami di parentela e con tutti i nomi di tipi simili a noi ma non proprio – che lui da verme dotto che era amava ripetermi – mi ci perdevo sempre.

Ma mi piaceva mio nonno, era un grande. Beh, come può esserlo un verme (mi rendo conto che siamo stati molto condizionati dal linguaggio umano). Ma non è questo il punto. Presentarvi il mio pedigree non aggiungerebbe per voi alcunché al valore alla mia confessione. Vengo dunque al punto. Si stava avvicinando lo shabbat. Dimenticavo di dirvelo, sono un verme che abita nei pressi della città santa, nella Terra d’Israele. Proprio nella terra d’Israele (battuta da verme, ammetto). Anche noi vermi, per simpatia – quasi mai ricambiata – verso gli umani, in questa terra rispettiamo lo shabbat.

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Dunque quel giorno, avvicinandosi lo shabbat, trovai una bella grotta in cui distendermi fra le pieghe di una roccia, per riposarmi e pensare un po’ ai fatti della mia vita. «Posto sbagliato!», pensai poco dopo. Un gran trambusto. Un paio di persone spostarono la pietra che bloccava l’apertura della grotta e vi infilarono dentro un qualcosa avvolto in bende e teli, macchiate da tracce di sangue. «Bel posto che ho scelto, questa è una tomba!», mi dissi sconsolato. Ma presto richiusero l’apertura con una grande pietra. E fu silenzio. E fu buietto. Mi sentivo più rilassato. In fondo noi con i cadaveri abbiamo un certo feeling, e non mi dispiaceva poi così tanto condividere quello spazio accanto a quella compagnia silenziosa.

Mi misi a pensare ai fatti miei. Ogni tanto il pensiero andava a quel cadavere. Chissà mai chi era quell’uomo? Uomo certamente, troppo alto per essere una donna. Quelli che l’hanno posato non hanno detto una parola, non hanno fatto un lamento, sembravano animati da una grande fretta. Hanno rotolato la pietra di chiusura e se la sono svignata. Ho sentito i loro passi, se ne andavano. Dalle bende del cadavere si spandeva nella grotta un profumo di erbe aromatiche. «Aloe e mirra», proferì, da intenditore. Ero sicuro di non sbagliarmi, ho un naso fino per i profumi. Che mi piacciono tantissimo, devo dire. Come a tanti di noi, vermi. E pensare che quel saputello di Aristotele ci ha chiamati «intestini del suolo». Ma non è stato l’unico a disprezzarci. Sto di nuovo divagando, queste cose non vi interessano.

Dunque, piacevolmente intontito da quel profumo, mi misi a pensare. «Doveva essere un tipo importante, quello lì. Io non mi sbaglio quando si tratta di profumi… occhio e croce hanno infilato tra le bende più o meno, libbra in più libbra in meno, cento libbre di aloe e mirra. Mica uno scherzo». Però che ci facevano quelle tracce di sangue che segnavano le bende? Quel cadavere sembrava di un uomo che nelle ultime ore se l’era passata piuttosto maluccio. Qui siamo di fronte al posto dove i Romani giustiziano i criminali. Non vorrei mai che… «Ma saran fattacci suoi. Ora non può più fare male a nessuno, tantomeno a me, un verme», mi misi a ridere. Risi di gusto, pensai a mio nonno, pensai a Marietta. Beh questa è un’altra storia, ma di nuovo divago e non vi interessa.

Dunque, pensai: «Ora una bella dormita, mi passo qui lo shabbat, un’altra dormitina e poi vedremo». Mi addormentai, cullato dal silenzio e dal buio. Passò lo shabbat. Noiosissimo, ma piacevolmente noioso come ogni shabbat. Mangiucchiai qualcosa che c’era tra le rocce, mi stirai un pochettino, feci due passi, si fa per dire, e ogni tanto lanciavo un’occhiatina a quel silenzioso compagno immobile tra le bende. Tutto filava liscio come l’olio. «Nulla di strano in questa confessione – direte voi – sono fatti di un verme». Avete ragione. La stranezza infatti accadde dopo.

Era la notte tra lo shabbat e il primo giorno della settimana. Avevo pensato: «Domattina mi alzo presto, me ne torno dai miei soci, e se per caso incontro Marietta…». Non so che ore fossero. Era piena notte, io dormivo come un sasso.  Mi svegliai di soprassalto. «Dove sono?», gridai. Ma nessuno sente un verme gridare. La grotta era illuminata da un lieve luce. Il cadavere era in piedi, senza bende. Non avendo arti, non riuscii a pizzicarmi per capire se stessi sognando o no. L’uomo era lì in piedi, le bende erano piegate con cura sulla pietra su cui era stato messo, sulla pelle non aveva tracce di sangue, solo il segno di qualche ferita, che però non sanguinava. In quel momento pensai che mi stesse fissando. «Scemo – mi dissi –, figurati se guarda uno come te, un verme».

Fuori era notte fonda. Lo vedevo perché la pietra non chiudeva più la grotta, era stata spostata. L’uomo era in piedi, aveva lo sguardo di chi se l’è vista proprio brutta ma poi è passata. Non so quanto durò quella scena. Forse secondi, forse molto meno. Un lampo di tempo. Poi l’uomo scomparve. Come scompare una nuvola in cielo. Pluf. La luce tenue che illuminava la grotta si spense. Rimase il buio dentro la grotta e fuori. E l’aria fresca della notte che entrava e si mescolava al profumo di mirre e aloe. Io ero sbigottito. Me ne andai in tutta fretta, per raggiungere i miei soci. Li trovai che ancora dormivano profondamente. A colazione raccontai tutto. E si fecero una grande risata. «Hai fatto un brutto sogno, capita!». Io insistetti che era tutto vero quello che avevo visto. Ma niente da fare. Mio nonno mi venne vicino e mi guardò con tenerezza. Decisi di non parlare mai più di quella notte. Venni poi a sapere – i vermi sono più pettegoli degli umani – che alcune donne e alcuni uomini dicevano che il tipo che era stato sepolto in quella grotta era risorto. Pochi credettero a loro, tanti li derisero. Ebbero comunque maggior successo di me. A me non credette nessuno. Eppure sono stato l’unico testimone oculare di quell’evento. Siccome avevo imparato a scrivere, decisi di buttar giù questa confessione. E la seppellì sotto terra. Chissà che qualcuno mai la trovi.

Firmato, un verme (tengo l’anonimato).

 

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