Comunione

Jesús Morán è copresidente del Movimento dei Focolari. Laureato  in Filosofia, è specializzato in antropologia teologica  e  teologia morale.

Grande parola. Grande concetto. E grande sfida per quel che riguarda metterla in pratica. Sappiamo che la parola viene dal latino communio e communis. Le radici indoeuropee della parola, kom (insieme, vicino a) e mei (cambiare e muovere), indicano un processo dinamico: l’azione di muovere per mettere insieme. La radice mei sta anche alla base del munus, e cioè l’incarico, il dovere. Nella storia dell’umanità si sono compiute tante imprese all’insegna del kom e del mei, con esiti spesso contraddittori. Penso alla vicenda dei comuneros, contadini spagnoli della Castiglia che all’inizio del XVI secolo organizzarono una rivolta contro il nuovo imperatore Carlo I, in seguito alla sua decisione di alzare le tasse, con conseguente peggioramento della loro perché degenera in forme a volte terribili di dis-unione o dis-sociazione? Dovremmo inventare un neologismo, “dis-comunione”, per esprimere questa degenerazione del kom. Ma veniamo alla domanda. A mio avviso, si può parlare di comunione solo quando il rapporto tra gli individui diventa un rapporto da persona a persona. Solo il rapporto interpersonale è comunionale. Da qui deduco che la degenerazione della comunione avviene sempre nel contesto di un “noi” impersonale. Degenera perché al posto della relazionalità personale prevale l’ideologia, l’interesse di parte (più o meno nascosto) o l’affidamento cieco a un leader che esercita un munus autoritario. Il kom viene distrutto dal mei impersonale, interessato o dispotico. Quando nell’ambito di una cultura dell’unità parliamo di  già precaria situazione economica. Alla fine del XIX secolo la storia registra a Parigi la nascita de La Comune, governo rivoluzionario popolare che mette in ginocchio l’autorità di un altro imperatore, Napoleone III, dopo la sconfitta francese a Sédan durante la guerra franco-prussiana. Negli ultimi anni ’60 del XX secolo anche il movimento hippy si cristallizza in forme di convivenze, le comuni. Sono alcuni esempi della vicenda del kom nella vita sociale degli uomini. In altri ambiti, gli uomini e le donne hanno cercato e inventato le più varie forme di comunione per rispondere ai loro bisogni. Di alcune di queste abbiamo notizia, ma non della maggior parte.

D’altronde la vita supera infinitamente ciò che di essa viene documentato. Mi interessa rilevare il carattere dinamico di tutte queste esperienze, al di là del risultato più o meno costruttivo. La comunione non è qualcosa di statico o semplicemente formale. La comunione non si fa a tavolino, né può imporsi dal di fuori. Se si arriva ad un stadio di rigida stagnazione, vuol dire che l’impulso comunionale si è da tempo arrestato. Le forme di comunione imposte – come nei Paesi del comunismo di Stato, in Russia, Cina o Cuba – rappresentano una situazione nella quale il kom ha cessato di essere lievitato dal mei, e cioè dal munus collettivo che invece muove, cambia in continuazione, crea. Una comunione statica è una comunione morta. Perché muore il kom, perché si autodistrugge, perché degenera in forme a volte terribili di dis-unione o dis-sociazione? Dovremmo inventare un neologismo, “dis-comunione”, per esprimere questa degenerazione del kom. Ma veniamo alla domanda. A mio avviso, si può parlare di comunione solo quando il rapporto tra gli individui diventa un rapporto da persona a persona. Solo il rapporto interpersonale è comunionale.

Da qui deduco che la degenerazione della comunione avviene sempre nel contesto di un “noi” impersonale. Degenera perché al posto della relazionalità personale prevale l’ideologia, l’interesse di parte (più o meno nascosto) o l’affidamento cieco a un leader che esercita un munus autoritario. Il kom viene distrutto dal mei impersonale, interessato o dispotico. Quando nell’ambito di una cultura dell’unità parliamo di spiritualità di comunione, di Economia di Comunione, di pedagogia di comunione, stiamo facendo riferimento a un kom lievitato da un movente (mei) personale. In una spiritualità di comunione, infatti, si va insieme a Dio, fino al punto che la perfezione personale risulta direttamente proporzionale alla perfezione dell’altro. O meglio, non c’è perfezione personale, ma una dinamica di amore reciproco, e di “perdersi” nell’Amore, che perfeziona e potenzia le capacità individuali. In una spiritualità di comunione i famosi “consigli evangelici” di povertà, castità e obbedienza vengono trasfigurati in una esperienza comunionale in cui i vari munus (ci potrà anche essere chi ha la responsabilità  ultima della comunione) diventano servizio alla realizzazione dell’altro. In una Economia di Comunione la ricchezza e il profitto trovano e potenziano la loro intrinseca dimensione sociale di servizio al benessere della collettività. Un’Economia di Comunione ha l’opzione preferenziale per i poveri non per beneficenza, ma per uno spiccato senso della dignità di ogni essere umano. Comunione non è solo una grande parola o un grande concetto. Una prassi di comunione estesa a tutti gli ambiti della vita personale ci rende attori di un cambiamento culturale. Solo essa può sradicare uno dei grandi mali del nostro tempo: l’individualismo esasperato e spersonalizzante.

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