Come “guarisce” un quartiere

Costruirsi un futuro e riscattare un territorio. Per i ragazzi del Rione Sanità la cultura è diventata risorsa.
Gente

Benvenuti nel Rione Sanità, il popolare quartiere napoletano famoso per aver dato i natali a Totò, ispirato Il sindaco del Rione Sanità di Eduardo e fatto da scenario a film come Ieri, oggi e domani e L’oro di Napoli di De Sica,  ma oggi purtroppo noto più per gli episodi di microcriminalità e di connivenza con la camorra. L’alternativa all’illegalità e alla mancanza di speranza per il futuro? C’è e sta prendendo consistenza proprio in queste vie intasate dal traffico umano e dei veicoli, negli antichi palazzi che ostentano trascorsi fasti in mezzo al degrado edilizio, nei “bassi” dove tutto è in vista e la tv rimane accesa dalla mattina alla sera.

 

Eccoci davanti alla maestosa basilica barocca di Santa Maria della Sanità, la parrocchia del quartiere, vero museo d’arte del Seicento e Settecento napoletani. Da sempre punto naturale di aggregazione per la gente del posto, è oggi l’anima e il centro propulsore di iniziative che stanno contribuendo al riscatto sociale di questa fetta di centro storico: coi suoi 50 mila abitanti, un’altra città dalle caratteristiche sue proprie, dovute alla morfologia del luogo stesso e alle vicende storiche.

In questa valle della Sanità, scavata dal secolare scorrere delle acque dall’alto dei Colli Aminei, s’insediarono le necropoli pagane e poi quelle cristiane di San Gennaro, San Gaudioso e San Severo, fino al cimitero delle Fontanelle (XVII secolo); e qui nel 1500, quando Napoli ebbe necessità di espandersi, sorse uno dei primi borghi extra moenia che conobbe la sua epoca di splendore nei secoli XVII e XVIII  con la fondazione di chiese, conventi e palazzi nobiliari. La crisi arrivò nel 1809, quando Gioacchino Murat – per congiungere il palazzo reale di Capodimonte col centro della capitale partenopea – creò il famigerato ponte della Sanità che, escludendo il rione dal resto della città, lo condannò alla marginalizzazione. Tuttora un pilone dello stesso ponte sfigura pesantemente il raffinato chiostro ovale dell’ex monastero accanto alla basilica.

 

Chiedo del parroco, don Antonio Loffredo, che però – mi dicono –  va cercato presso le non lontane catacombe di San Gennaro. Ne approfitto intanto per visitare l’antico ipogeo sottostante la chiesa. Antonio, la guida ventenne che accompagna me e un gruppetto di turisti, illustra con competenza e calore (si sente che per lui non è solo un mestiere) questo cimitero paleocristiano riutilizzato nel Seicento, epoca alla quale risale l’uso macabro degli “scolatoi” dove si mettevano a essiccare i cadaveri prima di seppellirli. La catacomba è intitolata a san Gaudioso, che fu vescovo di Bitinia nell’Africa proconsolare. Fuggendo con altri cristiani dai vandali di Genserico, questo personaggio che figurerebbe benissimo come patrono dei rifugiati di ieri e soprattutto di oggi, riparò a Napoli nel 439, testimone non unico dei contatti tra la Chiesa africana e quella napoletana già nei primi secoli.  

 

Galvanizzato dalla visita a questi tesori d’arte e di fede, raggiungo in bus la collina di Capodimonte, dove un’altra basilica, quella dell’Incoronata Maria del Buon Consiglio, offre una vista spettacolare sulla città. Di recente, sul sagrato è apparso un colossale busto bronzeo di san Gennaro: a sentire qualche passante, più che devozione suscita sconcerto; e in effetti questa moderna scultura ricorda stranamente gli inquietanti idoli dell’Isola di Pasqua. Quanto più simpatica e accogliente è invece l’immagine dello stesso patrono di Napoli che tra poco ammirerò affrescata nelle catacombe qui accanto, a lui intitolate.

 

Don Antonio non tarda a farsi vivo presso la biglietteria. Nato nel centro storico e parroco da dieci anni alla Sanità dopo una lunga esperienza pastorale in una zona a rischio come la periferia est di Napoli, conquista al primo colpo per la carica di umanità e l’entusiasmo con cui parla della sua gente. Il suo nome è spesso rimbalzato sui mass media per le iniziative promosse nel quartiere e la recente provocazione di una puntata al museo Lombroso di Torino per benedire i macabri reperti che servirono a elaborare la famosa teoria (non scientifica) della tipologia criminale: alcune centinaia di teste di poveracci del nostro Sud per le quali ha caldeggiato una decorosa sepoltura nel cimitero delle Fontanelle.

Tra le altre, ha la dote – piuttosto rara in chi ha attitudini manageriali come lui – di non essere un accentratore: lancia stimoli, ma lascia fare agli altri. In breve, è rimasto un semplice prete, cioè uno che serve. Si può star certi che, quando verrà per lui l’ora di lasciare questo quartiere, le molteplici attività di cui è animatore e coordinatore continueranno a vivere e a svilupparsi.

 

Prima però di illustrarmele in dettaglio, m’invita a visitare questo millenario sepolcreto di recente restituito alla città dopo anni di abbandono. Mi fa da guida Enzo Porzio, 25 anni, socio della cooperativa La Paranza che gestisce le visite ai tesori sotterranei e a quelli in superficie del quartiere, lungo un itinerario che dal Duomo va scoprendo il volto cristiano della Sanità: il cosiddetto “Miglio Sacro”.

 

Chi ha in mente le claustrofobiche catacombe romane non può rendersi conto dell’unicità del complesso ianuario, caratterizzato da ambulacri e slarghi insolitamente ampi grazie alla consistenza del materiale in cui è stato scavato: quel pregiato tufo giallo che per secoli ha fornito materiale da costruzione ai napoletani. Una suggestiva illuminazione esalta al massimo la stratificata decorazione a fresco e a mosaico, fra cui sorprende l’arcosolio con l’immagine di Cerula in atteggiamento di orante sotto i simboli dell’alfa e dell’omega: se non una antesignana delle diaconesse, certo dovette essere una donna impegnata in prima persona nella evangelizzazione, come sembrano indicare i quattro vangeli aperti che l’affiancano. Lungo il percorso moderne e stilizzate sculture in metallo fanno da contrappunto non disarmonico all’antico.

L’itinerario si conclude nella stupenda basilica di San Gennaro fuori le Mura (V secolo), riaperta dopo ben quarant’anni per iniziativa di don Antonio e dei suoi ragazzi, assieme ad altre chiese e siti rimasti chiusi per decenni e che solo i più anziani di qui ricordavano. È davvero l’immagine inedita di un’altra Napoli, densa di spiritualità, quella che mi porto via riuscendo all’aperto. Grazie anche al commento partecipe di Enzo e prima ancora di Antonio: vi si avverte l’orgoglio di giovani che hanno riscoperto le radici cristiane della propria città e si sentono più che mai ad essa affettivamente legati.

 

Ritrovato don Antonio, prende avvio la nostra chiacchierata a tre. «Dopo gli anni intensi vissuti fra le emergenze sociali della zona di Poggioreale – inizia a raccontare lui – mi ritenevo ormai in grado di fare il parroco anche altrove. Invece qui ho capito che doveva essere un’altra l’impostazione pastorale. Sarà che questo del centro storico è un popolo che, avendo sofferto per secoli, è più diffidente, col quale il rapporto non è immediato come in periferia. Così il primo anno sono stato a guardare, rimanendo a mia volta sotto osservazione. Qui ho rifatto un bagno nella Napoli vera, quella dei sentimenti viscerali, che invece si va perdendo altrove. Sono queste doti di umanità tra le ricchezze del Rione Sanità, insieme alla risorsa occupazionale rappresentata dai beni storico-artistici: una intuizione geniale ereditata dal mio predecessore morto prematuramente. I giovani della parrocchia oggi riuniti in cooperative questo l‘hanno capito e sono impegnati ad investire sul bello come bellezza che guarisce e da custodire per le generazioni future, ed è anche risorsa economica».

Conferma Enzo: «È vero che il ponte della Sanità ci ha chiusi in un ghetto nel quale hanno attecchito degrado sociale e illegalità, ma è anche vero che ha contribuito a preservare la napoletanità del quartiere, le sue tradizioni, arti, mestieri. Quando abbiamo costituito La Paranza onlus eravamo in sei: oggi siamo in diciotto, tra chi si occupa di manutenzione, amministrazione, guida turistica, custodia. Ci sono tra noi anche ragazze. Ha finanziato in nostri progetti l’associazione “L’altra Napoli”, creata da imprenditori napoletani che vivono altrove ma non hanno dimenticato le loro radici: così, dal 2006, abbiamo avviato le visite a San Gaudioso e nel quartiere, la casa del Monacone (l’ex convento annesso alla parrocchia, trasformato in una struttura di accoglienza dove si trovano ospitalità e arte contemporanea). Il nostro è un turismo non invadente, un turismo dei piccoli gruppi, proprio per custodire la naturalezza del posto. Non si tratta solo di illustrare le sue bellezze storico-artistiche, ma anche di trasmettere il messaggio cristiano, introducendo i visitatori a quelli che sono i misteri della fede».

 

«Qui è intervenuto un fatto nuovo – precisa don Antonio –: nel 2009 l’Arcidiocesi di Napoli ha affidato la gestione delle catacombe di San Gaudioso e di San Gennaro ai nostri giovani, progetto reso possibile grazie anche alla collaborazione con la Fondazione per il Sud. Hai appena visto questa catacomba: è un altro mondo, rispetto a come s’era ridotta. Qui abbiamo sanato situazioni di preoccupante degrado e stiamo lavorando per la fruizione di beni che non finiscono di riservarci sorprese (l’ultima scoperta è una intensa immagine di san Paolo dei primi del VI secolo)».

 

«”La Paranza” – confida Enzo – ha rappresentato un percorso di crescita umana anche per chi ne fa parte, in quanto nessuno di noi era specializzato in questo campo, è stata necessaria una formazione. Per quanto mi riguarda, per un anno ho lavorato e seguito corsi d’inglese a Londra e da quest’anno frequento l’università, facoltà di Turismo e beni culturali, all’Istituto Suor Orsola Benincasa: una scelta impensabile solo un anno fa. Da qui sono gemmate altre due cooperative di produzione lavoro: “L’officina dei talenti”, che si occupa dell’illuminazione e manutenzione dei luoghi da noi gestiti, e gli “Iron Angels”, ragazzi che hanno appreso l’arte della lavorazione del ferro dal maestro architetto e noto designer Riccardo Dalisi. Le opere decorative che hai visto sparse nelle catacombe sono realizzate da loro».

Saranno queste attività produttive partite “dal basso”, condotte e sponsorizzate da privati, la nuova leva atta a risollevare le sorti della Sanità? Certo che qui non c’entrano né il comune né la regione, dimostratisi piuttosto sordi alle necessità del rione.

 

«Lavoriamo più di quanto dovremmo da contratto, e con piacere, perché sentiamo questi luoghi nostri – prosegue il giovane socio della cooperativa –. Da molti amici sono ritenuto uno fortunato perché faccio un lavoro che mi piace. Quando ad alcuni di noi è stato proposto quello che a Napoli chiamano il “posto”, il lavoro a tempo indeterminato, noi vi abbiamo sempre rinunciato per investire in un progetto che ancora oggi non sappiamo come andrà a finire, ma intanto ci sta dando soddisfazioni enormi».

Anche quelli della Paranza hanno raccolto notorietà per una provocazione: l’occupazione, fatta insieme a una rappresentanza di anziani del quartiere, del cimitero delle Fontanelle: meta, un tempo, di devoti alle anime del Purgatorio, era ancora chiuso dopo anni di lunghissimi restauri per mancanza di personale di custodia. «Così il 23 maggio 2010, in occasione del Maggio dei monumenti, abbiamo occupato il sito e preteso che rimanesse aperto».

 

Sostiene don Antonio: «Non serve condannare ciò che va male e intanto lasciare che le generazioni vengano su con l’andazzo di sempre: va costruito il bene. Abbiamo promosso allora dei percorsi di aggregazione, a cominciare dai bambini, organizzando dei doposcuola, una palestra, dei corsi di danza e di teatro. Sai, qui la teatralità è molto spiccata, non per niente siamo nel quartiere dove è nato Totò. E poi c’è il gruppo conosciuto come “Sanitansemble”, ispirato ad un progetto di educazione musicale nato una trentina di anni fa a Caracas e adottato poi come sistema educativo nazionale: un progetto che ha dato vita ad orchestre ora note in tutto il mondo, i cui elementi sono ex ragazzi delle baraccopoli sottratti, attraverso la musica, al degrado della strada. Ebbene, quattro anni fa “L’altra Napoli” con il maestro Maurizio Baratta, musicista e insegnante della scuola media a indirizzo musicale, avviava coi bambini della Sanità e undici giovani maestri di musica un analogo progetto di formazione orchestrale giovanile. Fare musica in un’orchestra è diverso che imparare uno strumento come singoli, richiede l’impegno maggiore, ma molto più gratificante, di un percorso comune. “Sanitansemble” è nato così, col coinvolgimento delle famiglie degli stessi piccoli musicisti.

 

«Nel pomeriggio si possono vedere ragazzi dai 10 ai 16 anni uscire dai bassi della Sanità con il loro strumento in mano: vanno a prendere lezioni di musica in una sala della parrocchia. Loro che normalmente faticano ad applicarsi a lungo ai compiti di scuola e doposcuola (l’assenteismo scolastico più alto si registra da noi), reggono invece benissimo e con profitto alle  tre ore di lezione del maestro Baratta. Solo uno su 35 è venuto meno in questi tre anni. Il risultato è che oggi sono orchestrali a tutti gli effetti, in grado di eseguire concerti di cinquanta minuti. Un modello che ora siamo pronti a replicare, dando vita ad una seconda orchestra, anche per soddisfare le numerosissime richieste di altri ragazzi».

Quello che sta accadendo qui è diventato un “fenomeno” da studiare e un possibile esempio da imitare, sia in Italia che all’estero. Le difficoltà maggiori in questo percorso sono rappresentate dalla snervante lentezza della burocrazia, a livello di comune, di regione. «Noi però siamo sempre disponibili a fare da incubatori di nuove imprese. L’idea che la bellezza ci salverà fa parte del cammino di rinascita lento ma sicuro di questo quartiere. Ci sono pensieri nuovi che cominciano a girare nella testa della nostra gente, è in atto ormai un cambiamento culturale: ed è quello che soprattutto ci interessa. L’altro cambiamento, quello economico, viene di conseguenza».

 

email: officinadeitalenti@pec.it

Per saperne di più, vedi www.cittanuova.it

 

 

Storie di ordinario coraggio

 

… e di straordinaria umanità. Sono quelle raccolte nel volume di Cinzia Massa e Vincenzo Moretti Rione Sanità, edito da Ediesse. È il rione stesso, in questo documento palpitante di vita e di speranza, a prendere la parola attraverso i suoi luoghi emblematici e coloro, tra i suoi abitanti, che non si sono rassegnati all’illegalità, al degrado, all’isolamento, all’ignoranza, ma si stanno facendo artefici della sua rinascita. «Sì, al Rione Sanità si vince con la cultura e il lavoro. O si perde irrimediabilmente». Un libro da diffondere col passaparola. E da cui imparare.

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