Colori e forme in libertà

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Mirò: due sillabe e senza ulteriori presentazioni, ecco allegri corpi filiformi fluttuanti su sfondi colorati; forme piatte e sgargianti che ambiguamente riportano a un sole, un occhio o un microrganismo, o più semplicemente a un cerchio, un anello, uno scarabocchio. A Ferrara c’è l’occasione straordinaria di vedere insieme gli arditi sviluppi del pittore surrealista e gli esordi strettamente legati alla terra d’origine. La Catalogna emerge infatti con la sua gente, le sue tradizioni, le sue simbologie legate alla fertilità, alla metamorfosi, al continuo ciclo di vita- morte, e ancora vita. La contadina dipinta dal giovane Mirò è già schematica, essenziale, potente: una donna che governa le fatiche del lavoro nei campi e nel microcosmo domestico. Le mani vigorose stringono il cesto e il coniglio da cucinare, mentre i piedi sono saldati indissolubilmente a terra; per contro, il pavimento e le pareti si schiacciano su un unico piano. Tutti gli attori del quadro (gatto e stufa inclusi) scivolano dall’ambito della realtà alla personale interpretazione di un pittore che cerca con forza la propria visione e la propria sintesi del mondo. A rapidi passi l’esperienza figurativa si sviluppa in quella astratta: con il viaggio a Parigi e il contatto con i movimenti d’avanguardia l’arte di Mirò si apre ad un paesaggio trasversale. Le forme, sempre ridotte e sti- lizzate, non si riferiscono più ad attori riconoscibili ma costituiscono un nuovo vocabolario di figure autonome: triangoli che camminano zampettando su lunghi steli, occhi che strabuzzano nel vuoto, lettere, ciglia, calligrafismi liberi. Tutto ciò compare nel Paesaggio catalano sottotitolato Il cacciatore; inutile cercarlo all’interno del quadro, o meglio, inutile cercarlo nelle forme che già conosciamo. Ciò che possiamo ritrovare, rovistando nel nostro immaginario, è il calore e l’energia di quella regione che ora esplode sulla tela in una profusione di giallo allegro e cantereccio. Si apre un mondo nuovo governato dalle regole volanti della fantasia. È lo stile col quale oggi riconosciamo subito il grande maestro: Mirò diventa Mirò. Da qui in poi è tutto un viaggio alla scoperta di un universo incontaminato fatto di segni semplici ed elementari che riecheggiano il repertorio del disegno e dell’immaginario infantile. I colori puri straripanti o racchiusi nelle nuove forme unicellulari riportano ad un cosmo primordiale, ludico e formicolante di figure che fluttuano nello spazio fra rari e labili riferimenti alla realtà. A differenza di tutti gli altri surrealisti Mirò si libera dalle oscure implicazioni dell’inconscio per lasciarsi galleggiare in un mare di gioia e di innocente vitalità, sul cui fondale possiamo comunque intuire una diretta e concreta esperienza del mondo. Questa esperienza che assume i toni della scoperta e del perenne stupore porta l’artista ad infoltire senza tregua il repertorio delle sue figure: ceramica e ossa, pece e sabbia, ghiaia e corda, tessuti tagliati, rammendati o bruciati, e ancora cartoni, corteccia, rete da pesca e persino una scopa, il tutto scelto ed assemblato con assoluta libertà e raffinata ironia. La mostra si chiude con un capolavoro della tarda maturità: la pennellata gestuale sull’immensa tela dipinta evoca la palpitazione oscura della notte e la potenza vitale e trasformatrice della natura. Da una terra inzuppata nelle tinte forti è cresciuto un artista che ha scaraventato in aria linee e colori per poterci giocare senza limiti, eppure le radici della sua arte e della sua anima affondano nel mondo reale; non lo vogliono fuggire, quanto piuttosto ri-creare. Lo dice lo stesso artista: Bisogna tenere i piedi saldamente sulla terra per poter poi fare dei grandi salti verso l’alto: è proprio il fatto di scendere qualche volta sulla terra che mi permette di volare.

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