Colombia: speranze e rischi dell’accordo di pace

I nodi irrisolti del documento finale: la questione della terra, le responsabilità (negate) dei militari, i 200 leader del movimento politico delle Farc uccisi, la pace territoriale, il problema della destra colombiana, il plebiscito. Intervista a padre Javier Giraldo, membro del tavolo di dialogo che ha portato all'accordo tra il governo della Colombia e le FARC
Javier Giraldo

È un afoso pomeriggio romano quello del 6 luglio 2016 alla Fondazione Basso di Via della Dogana Vecchia, ma l’ospite arrivato merita l’attenzione e l’ascolto riservati ai crocevia storici. Abbiamo il privilegio di raccogliere la testimonianza di padre Javier Giraldo, membro dello storico tavolo di dialogo che ha portato a L’Avana a un accordo di pace atteso da decenni tra il governo della Colombia e le FARC, il gruppo armato delle Forze armate rivoluzionarie di Colombia.

 

Padre Javier Giraldo, sacerdote gesuita, a differenza di altri sacerdoti della sua generazione sviati dalla Teoria della Liberazione – come il suo amico Camilo Torres, membro dell'ELN, morto il 16 febbraio nel suo primo combattimento armato – decise di continuare il suo impegno per una strada diversa da quelle delle armi. Come direttore del Centro de Investigación y Educación Popular CINEP, fondato dalla Compagnia di Gesù, ha iniziato a implementare un database per documentare i massacri  dei contadini e realizzato i primi processi legali nelle stanze giudiziali.

 

Per sviluppare uno sguardo politico, non solo giuridico, ha fondato nel 1988 la Comisión Intereclesial de Justicia y Paz, composta da 45 congregazioni religiose cattoliche presenti in Colombia. Nel 1989 è diventato segretario generale per l’America Latina del Tribunale permanente dei popoli durante le sessioni su impunità e crimini contro l’umanità in America Latina. Oggi accompagna la Comunidad de Paz de San José de Apartadó ed è un fidato collaboratore della Conferenza episcopale colombiana. Teologo, filosofo, sociologo e letterato, da decenni studioso del conflitto armato colombiano e autore di numerosi testi ben noti, in quest’occasione ci parla in qualità di membro della commissione storica al tavolo del negoziato tra governo colombiano e FARC a L’Avana.

 

Padre, lo scetticismo è d’obbligo. Era necessaria un’uscita negoziata dal conflitto tramite un dialogo con delle forze armate protagoniste di innumerevoli stragi?

«È evidente: sono trascorsi già 60 anni di guerra con milioni di vittime. Chi manifesta il desiderio di continuare con la sofferenza, il sangue, l’odio non è una persona umana. Ma è fondamentale tracciare una differenza tra il bisogno di un processo di pace e l’analisi di questo processo. Se veramente abbiamo a cuore la pace, bisogna trovare il modo di ottenerla e valutare come questo accordo possa spingere nella strada giusta».

 

Si può dialogare col presidente Santos? Ma soprattutto, è stato un dialogo vero e approfondito quello tra le parti?

«No, non è stato un dialogo profondo e vero, ma piuttosto un negoziato dove si fanno alcune proposte, altre si respingono e, dopo il confronto, si arriva a un risultato da cui traggono beneficio entrambe le parti: nessuna delle due parti descrive la sua esperienza come una resa».

 

E la popolazione, con le sue vittime, trae beneficio da questo accordo?

«Sì, se l’accordo viene attuato per come è stato firmato. In questi quattro anni, in diverse occasioni, il linguaggio usato ha spesso enfatizzato la questione delle vittime. Ad Oslo, in Norvegia, all’inizio dei colloqui il governo ha affermato che il modello politico, economico e militare colombiano non può essere oggetto di discussione: escludendo questi temi fondamentali del dialogo, ha posto un limite molto complesso al negoziato, dato che è evidente come le radici del conflitto risiedano in questi modelli. Il tema principale del negoziato è stato la proposta, da parte delle FARC, di arrivare a un punto fermo in merito alla concentrazione delle proprietà terriere, adottando meccanismi di garanzia contro nuove corporazioni che concentrino proprietà: il governo ha respinto con forza questa proposta».

 

Quale sarebbe il bisogno fondamentale delle vittime?

«Tutti noi ricercatori, membri della commissione storica del tavolo di dialogo a Cuba, siamo d’accordo sul fatto che la ragione del conflitto sia legata alla questione della terra. Dall’inizio del XX secolo fino ad oggi, diversi attori si sono resi protagonisti di grandi processi di despojo, espropriazione della terra, nei confronti dei campesinos, con la violenza e la sopraffazione, fino ad arrivare a più di 4 milioni di desplazados. Il dialogo non ha trovato una soluzione a questo flagello: le proposte delle FARC costituivano un passo avanti, ma in questo momento il governo colombiano ha accettato il prezzo della violenza in nome del mercato, andando avanti verso un despojo legalizzato».

 

Quali sono le ragioni dell'opposizione all’accordo?

«Così com’è, la già esistente legge sulle terre non è mai stata una minaccia per i grandi despojadores, questo non è oggi un problema che riguardi l’accordo de L’Avana: le percentuali di terre che torneranno ai veri proprietari campesinos è quasi inesistente. Buona parte dei media colombiani hanno creato nell’opinione pubblica la credenza collettiva che il risultato principale del processo di pace sia stato quello di non permettere che i membri delle FARC fossero condannati e incarcerati, senza chiedersi se andranno in carcere anche i militari. Ma dobbiamo riconoscere che nella storia colombiana, come è stato dimostrato, molti crimini atroci sono stato commessi dalla struttura militare, quindi da gruppi paramilitari, quasi sempre con il sostegno dell’esercito regolare. Per questo, la destra colombiana sta imbastendo una campagna contraria all’accordo, sostenendo che il processo favorisce solo l’impunità delle FARC».

 

Vi aspettavate un’alleanza tra l’ex presidente Uribe e l’ex presidente Pastrana?

«No, non ce l’aspettavamo affatto. In Spagna, all’inizio del suo mandato governativo, Pastrana aveva dichiarato, di fronte alla domanda sulla possibilità di vedere in Parlamento membri delle FARC, che sfortunatamente non era una condizione praticabile politicamente. Sarebbe stata l’ideale in teoria, ma si trattava di una proposta già vista in passato con la creazione di un soggetto politico denominato l’Unione patriottica, del quale però, volta per volta, erano stati uccisi quasi tutti i membri. A parere di Pastrana, riproporre nuovamente la cosa sarebbe stato un suicidio politico e in quel momento, in effetti, aveva dimostrato una positiva consapevolezza».

 

Si può pensare che l’ELN arriverà a un accordo di pace col governo colombiano?

«Non saprei esprimermi su questo: il processo è troppo complesso. La ragione della recente rottura del negoziato è il tema dei sequestri. Le FARC sottolineano che il tema del sequestro non fa parte del negoziato e chiedono la liberazione dei detenuti politici: così si blocca il dialogo, perché per il governo la loro liberazione non è un punto negoziabile».

 

Un accordo con le FARC, un processo bloccato con l’ELN: cosa fare con il paramilitarismo?

«Durante il negoziato il governo ha sempre negato l’esistenza del paramilitarismo, ma la pressione internazionale, che ha chiesto sistematicamente di affrontare il problema del paramilitarismo, ha fatto sì che nell’ultimo documento firmato a L’Avana la settimana scorsa fosse incluso un capitolo sulla spinosa questione. Io non sono sodisfatto delle misure intraprese, come ad esempio creare una forza di polizia per combatterlo, non affrontando di fatto i legami tra questo e le organizzazioni criminali. Sono misure che non affrontano il problema: ho suggerito di affrontare il problema centrale del paramilitarismo come risultante del sostegno delle strutture militari regolari, ma non è stato accettato un dialogo su quest’argomento nel tavolo di Cuba. Ma è un fatto che il movimento Marcha patriotica, che rappresenta l’inizio di un movimento politico vicino alle FARC, conta già più di 200 leader uccisi in meno di 3 anni dalla sua nascita».

 

La democrazia colombiana è preparata a includere le FARC quale attore politico?

«Questo sarebbe l’obiettivo di questo processo: tramutare le armi in voto democraticamente espresso, costituire un partito e partecipare alla contesa politica. Sono scettico però, perché il sistema elettorale colombiano costituisce una delle strutture più corrotte dello Stato. Per le Farc, tentare la strada della rappresentanza politica con questo sistema elettorale sarebbe una sicura sconfitta. E lo sarebbe perciò anche per la democrazia, perché non si tramuterebbe in un’effettiva radiografia delle reali scelte politiche dei colombiani: in Colombia le elezioni continuano purtroppo a essere un fenomeno economico e ripeto, il movimento Marcha patriotica conta più di 200 leader assassinati».

 

Quale sarebbe oggi il nuovo ruolo della Chiesa cattolica?

«La Chiesa cattolica è stata sempre disponibile a portare avanti una mediazione in questo processo. Dalla chiusura dell’ultimo dialogo di pace in Colombia, le FARC hanno perso fiducia nella Chiesa cattolica a causa di alcuni interventi del capo della Conferenza episcopale colombiana. In questo nuovo processo, la Chiesa ha solo contribuito a mettere in contatto gli attori con le vittime e supportare nei momenti di crisi il dialogo. Il dibattito interno alla Chiesa cattolica si concentra al momento sul tema della riconciliazione: decidere se in questo momento di pacificazione adottare una strategia di olvido (dimenticanza) o di memoria storica. La grande maggioranza dei vescovi sostiene l’idea di andare oltre il passato, dimenticando e non dando valore alla costruzione della memoria storica: del gruppo dei settanta vescovi colombiani, solo quattro sono d’accordo con la ricostruzione storica della memoria delle vittime».

 

Quale dovrebbe essere il ruolo della società civile dopo il conflitto?

«Il concetto di pace, scritto nel documento di accordo, è il concetto di pace territoriale: la pace, o è territoriale o non è pace. La maggioranza dei conflitti ha radici territoriali: l’accordo è solo l’inizio della costruzione di questa pace territoriale. Le ONG sono più vicine a vittime, gruppi armati e movimenti sociali: una buona posizione per la mediazione a livello locale. Il lavoro della società civile deve essere quello di promuovere la giustizia: la struttura della giustizia colombiana ha indici di corruzione e, per questo, essa richiede una profonda riforma. Ci sono due cose che in Colombia richiedono senza dubbio una riforma: la giustizia e la struttura militare. Questo deve essere il ruolo della società civile: riprendere le rivendicazioni che non sono state considerate  L’Avana, come la giustizia e la democrazia, un’istanza che passa anche attraverso una diversa condotta dei media».

 

Lei è d’accordo con il plebiscito [1] previsto in merito?

«Non mi sembra corretto. Sarebbe come chiedere a un Paese se è d’accordo con la morte o con la vita: non ci sono le domande di contenuto e la sua approvazione è globale. Sarebbe assurdo mettere a votazione la scelta tra la pace e la guerra: così facendo si costringerebbero i colombiani a scegliere tra un valore e un anti-valore. Le FARC hanno fatto opposizione alla realizzazione del plebiscito per una motivazione procedurale: questa possibilità mai è stata discussa al tavolo del negoziato. La proposta delle FARC sarebbe stata realizzare un tavolo per modificare la Costituzione, ma la settimana scorsa, dati i tempi stretti per la firma dell’accordo finale, le FARC hanno accettato l’idea del plebiscito previsto per settembre».

 

Siamo preparati per uno scenario possibile dove i colombiani votino per il NO?

«Le FARC hanno dichiarato che, anche qualora vincesse il NO, proseguiranno ugualmente con il processo di pace. Ma non saprei come, perché cambierebbe drammaticamente lo scenario: io non ho mai visto decisioni del governo che non fossero prima state negoziate nel palazzo presidenziale e non penso che si prendano il rischio di perdere».

 

Esiste il rischio che le nuove generazioni possano opporsi a questo storico passaggio attraverso il referendum?

«Non penso siano i giovani il problema: è evidente invece in loro una sorta di palpabile euforia per l’accordo di pace registrato. Buona parte dei media non alimenta un dibattito serio sulle condizioni effettive dell’accordo di pace. Tra gli ostacoli vedo piuttosto la crescente destra colombiana, che costituisce il principale avversario del percorso post-negoziato».

 

E padre Javier che cosa continuerà a fare?

«Continuerò nel mio lavoro di sempre: accompagnare la Comunidad de Paz de San José de Apartadó. Loro non si sono mai interessati al processo di pace, perché affermano che la pace da loro cercata è molto diversa da quella in ballo sul tavolo del negoziato: la pace della Comunità non si firma ma si fa, non è di un giorno preciso o di un’ora esatta, ma si costruisce tutti i giorni. Penso che, come non hanno mai votato, non voteranno neanche al plebiscito, perché non hanno fiducia nel sistema. Continueremo comunque con il lavoro nella comunità, cercando un altro tipo di pace: quella che viene dal fare comunità nella convivenza pacifica».

 



[1] La Costituzione colombiana comprende non solo la figura giuridica del referendum ma anche la modalità plebiscitaria. Entrambi s’ispirano al principio della consultazione a livello di base: il referendum riguarda la riforma delle istituzioni mentre il plebiscito, invece, consulta la volontà dei cittadini sulla politica ufficiale del governo e sulla valutazione dei fatti già compiuti e delle proposte future.

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