Poteri mafiosi, corruzione e la resistenza civile

Non solo corruzione. Ricordi e testimonianze dirette da Palermo, nel colloquio intervista con un ex dirigente di una grande società di telecomunicazioni. Dal sacco della città all’anno orribile delle stragi, il riscatto della coscienza e il valore fondante della coerenza personale.
corruzione e mafie. Ricordo Paolo Borsellino Foto LaPresse - Guglielmo Mangiapane

Come riconoscono le Nazioni unite, «la corruzione è un fenomeno sociale, politico ed economico che colpisce tutti i Paesi, minando le istituzioni e lo stato di diritto, distorcendo i mercati e i processi elettorali. In definitiva, questo fenomeno priva i cittadini di diritti fondamentali e rallenta lo sviluppo economico». Le risorse del Next Generation Ue rappresentano fisiologicamente una forte attrattiva per tutte quelle realtà che usano la corruzione come strumento del loro potere anche nel pieno delle sofferenze della pandemia.

Non è un tema, tuttavia, che può essere affrontato con dichiarazioni retoriche, ma nella complessità dei contesti sociali più difficili. A tal fine abbiamo raccolto le riflessioni di un ex dirigente di una grande azienda di telecomunicazioni che, nella sua attività lavorativa, ha operato prevalentemente nel Sud Italia, in periodi contrassegnati da una presenza mafiosa che si è manifestata con il volto della organizzazione militare oltre che con quello della persuasione.

Palermo. Panoramica
https://commons.wikimedia.org

Da che ambiente proviene e come è iniziata la sua carriera lavorativa?
Sono siciliano, per via dei genitori. Ma solo dopo la morte di mio padre, avvenuta quando avevo 16 anni – dopo i primi 13 anni vissuti in Calabria, dove sono nato, e tre ad Ancona – a settembre del 1961 sono venuto a vivere a Palermo. Qui ho conseguito la maturità classica ed ho intrapreso gli studi alla Facoltà di Ingegneria. Fin dagli inizi dell’università, ho aderito alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana della diocesi di Palermo e, dopo alcuni anni, ne sono stato nominato presidente. Sono stato anche impegnato nell’attività politica universitaria. In questo periodo ho cominciato ad imbattermi in logiche che non mi appartenevano. Ad esempio, eletto nelle elezioni universitarie nel gruppo di maggioranza, al momento dell’approvazione del bilancio, in disaccordo sull’entità di alcune voci di spesa, ho votato contro l’indirizzo dato dal gruppo di appartenenza. E, per questa decisione, sono stato tacciato di avere votato insieme ai “fascisti” (all’epoca, purtroppo, era questa la denominazione con cui gli altri appellavano i gruppi della destra).

Erano tempi molto vivaci e di contestazione. Come li ha affrontati?
Ci trovavamo nello storico Sessantotto. Una volta, poiché il Senato accademico ritardava a dare risposte su alcune richieste presentate dagli universitari della nostra Facoltà, ho partecipato alle occupazioni della stessa con assunzione di responsabilità in uno degli Istituti. Da questa azione mi sono dissociato dopo che il Senato aveva accolto le nostre richieste, ma gli estremisti hanno continuato ad occupare i vari Istituti, anche se ancora per poco. Nel 1970, appena laureato, ho ottenuto una borsa di studio nell’Istituto di Elettrotecnica della Facoltà di ingegneria. Ho lasciato questo incarico molto presto, per necessità economiche, avendo ricevuto, da un’azienda a partecipazione regionale, un’offerta di lavoro che sembrava interessante.

Come è stato questo approccio al mondo del lavoro di quegli anni?
Dopo poco tempo in questo impiego, ho notato nei confronti di un altro collega il riconoscimento di un diverso e migliore trattamento economico non legato a competenze, ma ad “appartenenze”. Così, avendo nel frattempo, ricevuto un’altra offerta che mi avrebbe potuto dare più opportunità, mi sono dimesso. Per questa nuova azienda, dopo un percorso di specializzazione al Politecnico di Torino e di formazione in ambito manageriale, nel 1972 sono stato trasferito a Palermo dove sono rimasto, con continuità, fino al 1982. Per motivi di servizio negli anni ottanta e novanta, con rientri periodici a Palermo, ho diretto anche altre realtà territoriali della Sicilia e della Calabria e con livelli di responsabilità che mi hanno consentito, in quel travagliato periodo storico, di guardare la società da un osservatorio privilegiato.

Vito Ciancimino. LaPresse/Archivio

Come ha vissuto questo periodo da palermitano?
Nell’autunno del 1961, arrivato a Palermo da Ancona, la prima cosa che mi aveva colpito era stata sentire, mentre stavo in casa, un signore che il pomeriggio passava per le strade a vendere il giornale “L’Ora” ed urlava, in dialetto siciliano, “I morti e i feriti”, rifacendosi ai titoli di prima pagina che frequentemente riguardavano casi di omicidi e violenza. Ho capito successivamente quale fosse la causa e vorrei contestualizzarla. Nella seconda metà degli anni cinquanta, a Palermo, erano stati eletti, tra i consiglieri comunali della Democrazia Cristiana, Salvo Lima e Vito Ciancimino. Il primo divenne assessore ai lavori pubblici e mantenne la carica fino alla fine degli anni cinquanta, quando venne eletto sindaco di Palermo e, nella carica di assessore, gli subentrò Ciancimino, fino al 1964. È durante questo periodo che si crearono le premesse della selvaggia trasformazione della città di Palermo, meglio conosciuta come “il sacco di Palermo”.

Cosa ha voluto dire questo “Sacco di Palermo”?
Possiamo dire che le relazioni, con estese zone di ombra, tra mafia degli appalti e dell’edilizia, politica, apparati amministrativi ed imprenditoriali, consentirono sia di ottenere, in tempi brevi e con le facilitazioni di istituti di credito, numerose licenze edilizie, anche in violazione delle norme a tutela del patrimonio pubblico, sia di costruire in difformità dalle licenze stesse. L’espressione “Il sacco di Palermo” storicamente rappresenta l’origine di questa inestricabile relazione tra mafia, parte della società ed importanti esponenti della politica locale. Ma è la metafora di un periodo in cui prevale la cultura dell’anteporre il proprio particolare interesse a quello generale pur di raccogliere persone in grado di portare consensi, in qualsiasi modo.

La corruzione politica era così evidente?
Un esempio spiega tante cose. Tra il 1970 ed il 1971 ricevo una lettera della Democrazia Cristiana per partecipare a delle elezioni interne. Apprendevo così di essere iscritto a quel partito. Avevo un amico che lavorava nella DC, ma dipendeva direttamente da Roma. Gli raccontai di questa lettera e subito mi disse: “qualcuno ti ha iscritto, pagandoti la tessera”. Mi spiegò che tra i tesserati ufficiali tanti neppure lo sapevano perché c’era qualcuno che, per conoscenza diretta o indiretta, pagava le tessere per loro. E c’erano tessere intestate a persone forse ormai defunte.

E lei cosa ha fatto?
Chiesi al mio amico di sapere a chi potevo rivolgermi per chiarire questo fatto. Mi disse di andare alla segreteria della sezione in cui risultavo iscritto, aggiungendomi che questa coincideva con l’abitazione del segretario della stessa sezione. Dopo aver bussato mi aprì la porta una persona alla quale chiesi di avere la tessera che non mi era stata inviata. A questo punto il mio interlocutore mi rispose così: «Ma come fa a sapere che lei è iscritto al partito in questa sezione?» Già questa domanda lasciava intravedere una rete vischiosa di rapporti strumentali e non democratici, che poteva consentire di controllare il tesseramento e di influenzare l’esito dei congressi provinciali, regionali e nazionali nonché la selezione del personale politico ed amministrativo.

Vittime di mafia, archivio LaPresse

Sono stati anni di violenze inaudite…
Ho un vivido ricordo di quel triste pomeriggio del 30 giugno 1963 mentre, sul balcone di casa, stavo preparandomi per gli esami di maturità. All’improvviso sentii provenire dal palazzo di fronte, delle urla disperate. Vidi uscire un ragazzo con a fianco dei militari. Il portiere mi disse che era il figlio di un militare che era morto per una bomba. Ma non si trattava di una bomba. Era un’Alfa Romeo “Giulietta”, imbottita di esplosivo. Il padre, in ferie, era stato richiamato in servizio per la sua esperienza di artificiere. Purtroppo, terminate le fasi di disinnesco, mentre uno dei militari tentava di aprire il portabagagli, si verificò una violentissima esplosione, provocata da un ordigno occultato nel portabagagli, che causò una strage in cui morirono, dilaniati, sette uomini delle forze dell’ordine. È stata, questa, la “strage di Ciaculli”- una borgata agricola nella periferia di Palermo – che segnava l’epilogo della cosiddetta prima guerra di mafia, nata in seno a Cosa Nostra, apparentemente a causa del traffico di stupefacenti. Il 2 luglio si svolsero i funerali in cattedrale e dall’aula degli esami di maturità nel nostro liceo, ad essa adiacente, si sentiva il lungo rintocco delle campane durante l’ingresso delle bare in chiesa.

Continua….

Testo integrale della intervista in allegato, scaricabile in pdf

 

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