Meno morti nelle città a 30 km/h

La proposta del consiglio comunale di Milano di istituire il limite di velocità di 30 km/h in alcune zone del centro si allinea con quanto già in uso in Europa e in varie città italiane; tra gli obiettivi del provvedimento quelli di aumentare la sicurezza di pedoni e ciclisti e contrastare l'inquinamento.
Velocità 30km/orari
(Foto: Pexels)

Ha fatto notizia perché la proposta è arrivata dal consiglio comunale di una città come Milano, ma in realtà non è cosa nuova: parliamo del limite di velocità di 30 km orari da istituire in alcune zone del centro, con l’intento di aumentare la sicurezza – in particolare di pedoni e ciclisti –, ridurre l’inquinamento sia atmosferico che acustico, abbassare i consumi di carburante (grazie ad una velocità più bassa ma più uniforme) e gestire meglio i flussi di traffico (appunto in virtù della maggiore uniformità). Va precisato che per ora si tratta solo di un documento approvato in consiglio comunale, non di una norma già operativa – il sindaco Sala ha precisato che lo sarà eventualmente non prima del 2024, dopo un lavoro di individuazione delle zone a cui applicarla; però ha appunto suscitato vivaci reazioni, da chi l’ha vista con favore, a chi ha ironizzato sul fatto che a questo punto si fa prima ad andare in bicicletta.

 

In realtà chi ha fatto dell’ironia non ha del tutto torto: secondo le rilevazioni di diversi enti – da Legambiente a Confcommercio – la velocità media delle auto nelle grandi città italiane varia dai 7 ai 28 km/h, a seconda delle fasce orarie. Un limite di 30 km/h avrebbe quindi solo l’effetto di “smorzare” i picchi di velocità che eventualmente si possono fare tra uno stop e l’altro in orari diversi da quelli di punta, ma non di diminuire realmente il tempo totale necessario agli spostamenti. E, tenendo conto che in bicicletta si può viaggiare agevolmente a 20 km/h, sì, in molti casi si fa prima. Ma questo è noto a chiunque viva in città trafficate – così come è noto che però è necessario che le strade siano effettivamente praticabili in sicurezza sulle due ruote, e su questo è chiaro che servono anche interventi strutturali come piste ciclabili e affini.

 

Dicevamo che quella proposta a Milano non è una novità: la prima città ad introdurre questa misura è stata infatti la francese Chambery, nel “lontano” 1979. L’intento era principalmente quello di ridurre gli incidenti a carico dei pedoni: se un impatto a 50 km/h, secondo uno studio del dipartimento statunitense dei trasporti, è mortale nel 40 per cento dei casi, a 30 km/h lo è solo nel 10 per cento. A Nord delle Alpi si è cominciato a muoversi in questo senso dagli anni Novanta: Graz, Londra, Parigi, Berlino, Amburgo, Grenoble, Bristol, Belfast, sono solo alcune delle città che tra allora e i primi anni 2000 hanno introdotto zone più o meno estese con questo limite di velocità. Ma anche la Spagna conta diversi esperimenti in questo senso, tra cui quello della capitale Madrid. In Italia si contano, a partire dal 2013, le esperienze di città come Caserta, Vicenza, Arezzo, Treviso, Olbia, Cesena, Bergamo, Torino e Bologna – chi con zone a 30 km/h già attive, chi le sta implementando. Del resto, ricordano una serie di associazioni con capofila Legambiente, “con una media di 561 feriti e 7,9 vittime ogni giorno, 1 ogni 3 ore, soprattutto in ambito urbano, gli incidenti stradali attualmente sono in Italia la prima causa di morte per i giovani, oltre a essere la prima causa di morte del lavoratore in itinere, con un costo sociale complessivo pari a 16,4 miliardi di euro, pari allo 0,9 per cento del PIL nazionale, secondo dati ACI-ISTAT 2021”.

 

Ma che risultati arrivano dalle città che hanno implementato questa misura? A Chambery pare abbia funzionato: se allora vi erano 453 incidenti l’anno, quarant’anni più tardi erano scesi a 32. Da Bristol viene riferita una riduzione del 63 per cento degli incidenti mortali: ogni anno sono stati evitati 5 morti, 11 feriti gravi e 159 feriti lievi. Ad Auckland, in Nuova Zelanda, l’introduzione di alcune “zone 30” ha portato (secondo Auckland Transport) a una riduzione dei decessi del 47 per cento e del 18 per cento per quanto riguarda le lesioni gravi. Il tutto a fronte di una velocità media dei veicoli in città rimasta sostanzialmente invariata: si conferma quindi che evitare i “picchi di velocità” tra uno stop e l’altro non va ad influire sui tempi complessivi del trasporto, ma evita morti e feriti. Va detto che dati di segno opposto arrivano da Belfast, dove l’imposizione di un limite più basso non ha portato ad una diminuzione degli incidenti, a fronte di un minore volume di traffico; ma si tratta dell’unico caso, e oltretutto controbilanciato da un significativo tasso di mancato rispetto del limite.

Il tema è caro al mondo dell’associazionismo. Legambiente, Fiab, Asvis, Kyoto Club, Vivinstrada, ANCMA, Salvaiciclisti, Fondazione Michele Scarponi e AMODO hanno scritto al ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini per chiedere un incontro presso il Dicastero e l’apertura di tavolo di discussione sul tema: la volontà è quella non solo di stimolare un’applicazione più vasta di questa misura, ma anche di monitorarne l’efficacia, così da individuare al meglio dove applicarla – strade dei centri cittadini, zone vicino alle scuole o ad altri punti “sensibili”, ecc. Associazioni che non dimenticano comunque che la riduzione del limite di velocità è solo uno dei tanti interventi da mettere in atto: per rendere la mobilità davvero sostenibile va infatti supportato da azioni come il rafforzamento del trasporto pubblico e la messa in sicurezza di marciapiedi e piste ciclabili

 

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