Cie di Bari, centro di accoglienza o carcere?

Nel capoluogo pugliese gli immigrati vengono ospitati in una struttura molto simile a quelle carcerarie, con controlli 24 ore su 24 e sistemi antievasione. Comune e Regione hanno fatto ricorso in tribunale contro il ministero
Cie di Milano

In questi giorni il Cie di Bari, uno dei 13 Centri di permanenza temporanea del Paese istituiti circa 14 anni fa con la legge Turco-Napolitano, è di nuovo al centro dell’interesse della città. Gli immigrati cosiddetti irregolari, provenienti da Bangladesh, Libia, Ghana, Costa D’Avorio, entrano nei Cie perché non hanno passaporto e non hanno ottenuto asilo politico, o perché non possiedono il permesso di soggiorno o non gli è stato rinnovato. Ma vengono trasferiti nel Cie anche prostitute coinvolte in retate, immigrati che hanno perso il lavoro e coloro che dal carcere, dopo aver esaurito la propria pena, devono attendere di essere identificati. L’ingiustizia di cui parlano i migranti consiste nell’essere puniti per quello che sono, e non per quello che fanno.

Il Cie di Bari si trova nei pressi dell’aeroporto, nel quartiere San Paolo, ed è delimitato da una cancellata metallica con sistema antievasione e dotato di videosorveglianza. Le camere sono  anguste, di circa 25 metri quadrati, arredate con letti metallici ancorati al pavimento, il comodino e l’armadietto sono costituiti da blocchi di calcestruzzo attaccati ai letti. Ogni camera ospita quattro persone. Le finestre con inferriata antievasione non sono dotate di tapparelle avvolgibili, per permettere un controllo 24 ore su 24. A questo si aggiunge l’assenza dei servizi sanitari e l’insufficienza di quelli igienici, sprovvisti di riservatezza come in un carcere. Le persone immigrate vivono in “moduli abitativi” e sono controllati dall’esterno da personale di sorveglianza coadiuvato da polizia di stato e forze armate.

A seguito dei numerosi articoli della stampa locale e nazionale sui rischi della trasformazione del centro da struttura di accoglienza in vera e propria struttura carceraria, l'11 luglio scorso il tribunale di Bari, nella persona del giudice Francesco Caso, è stato chiamato a rispondere agli interrogativi posti dai due avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci, che hanno avviato una class action procedimentale. Nell'udienza che si è tenuta giovedì 12 luglio, il giudice delegato Francesco Caso ha disposto l'acquisizione del fascicolo dell'accertamento tecnico preventivo e ha rinviato tutto al 18 luglio, giorno in cui la Regione Puglia e il Comune di Bari si sono costituiti in giudizio con i loro avvocati, aderendo alle tesi giuridiche e chiedendone l’immediato accoglimento. Il ministero dell’Interno e la presidenza del Consiglio dei ministri, di contro, si sono opposti alle domande esplicitate. Il giudice unico ha trattenuto la causa in decisione.

Gli interrogativi pressanti rivolti al Comune di Bari, alla Provincia di Bari, alla Giunta comunale e al ministero dell’Interno, pongono l’accento sull’accertamento delle condizioni del Centro di identificazione ed espulsione di Bari, per verificare se questo sia una struttura di accoglienza per migranti o un carcere. Si chiede inoltre se rinchiudere gli immigrati arrivati clandestinamente in Italia è una pratica legale o se violi i diritti umani e la Costituzione. Dalla relazione «è emersa l’evidenza inconfutabile di un regime in tutto e per tutto carcerario, con trattamento disumano dei detenuti ivi ristretti. La struttura di accoglienza è stata trasformata in vera e propria struttura carceraria extra ordinem».

Il dramma degli immigrati, che si riaffaccia ancora sulla cronaca Italiana, con i cinquanta migranti provenienti dalla Libia morti in mare per disidratazione, richiama in modo più determinante la responsabilità del nostro Paese nel rendere idonee le strutture di accoglienza, per consentire a questi fratelli almeno il rispetto dei diritti umani.
 
 

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