Ciao Silvano, ci mancherai!

Ci ha lasciato improvvisamente Silvano Gianti, nostro collaboratore. Originario del cuneese, viveva da qualche anno a Genova
foto di Massimiliano Cavallo

La notizia ci raggiunge mentre facciamo via zoom il nostro giornaliero incontro di redazione. E forse non poteva che essere così, perché Silvano era parte viva della redazione con la sua penna che raccontava la vita in diretta, quella di chi giorno per giorno costruisce un mondo migliore: Silvano ci ha lasciato improvvisamente! Rimaniamo sbigottiti, increduli, senza parole. Ci mettiamo un po’ a riprendere la riunione per accordarci sugli articoli da pubblicare sul sito e sugli altri lavori da portare avanti e ancora non riusciamo a pensarlo senza vita.

Ma probabilmente è lui che ci fa il dono di pensarlo ancora più di prima al nostro fianco, a ricordarci di sorridere col suo umorismo, come faceva sempre, con i suoi messaggi WhatsApp quasi quotidiani (dei video e delle vignette di Silvano abbiamo una collezione). Ci mancherà Silvano, ci mancherà la sua profonda umanità, ci mancherà la capacità di ridere di se stesso e di non prendersi troppo sul serio, di prendere la vita con quella “leggerezza” di chi sa che tutto passa e che solo amare conta.

Avevamo in serbo un suo articolo, adesso l’ultimo suo dono a tutti noi. Basterebbe questo a dire chi era Silvano. Fa impressione la frase con cui si chiude. Ricorda «il senso di una giornata che si chiude in pienezza».

 

Giovanni e Antonio

di Silvano Gianti

Una storia intrisa di umanità, a bordo di un treno diretto a Ventimiglia. Cosa succede quando il nostro sguardo incontra profondamente quello del prossimo.

Alla fermata di Genova Brignole il treno in arrivo da Roma diretto a Ventimiglia è stranamente in orario. Poche persone salgono. È metà pomeriggio di una domenica di sole e bel tempo nonostante siamo in pieno inverno. Sono diretto verso casa a San Remo, sono stato a trovare un gruppo di amici e ho in cuore le ore passate insieme, che mi hanno arricchito umanamente e spiritualmente. Guardo dai finestrini le persone che passeggiano sul lungomare, le mimose dall’altro lato che colorano in anticipo di giallo, la collina a volte interrotta dalle numerose gallerie. Tra meno di due ore sarò a casa mentre ancora vivo di gratitudine per questa giornata.

La fermata porta nuovi passeggeri e proprio di fronte a me, prende posto un tipo giovane con un fare alterato, sporco da testa a piedi, che mi fissa con fare poco rassicurante. Anche se non mi pare sia ubriaco nè tantomeno “fatto” di droga. Sistematosi comincia subito a imprecare contro tutto e contro tutti specie contro gli italiani, l’Italia, e poi naturalmente il mondo intero. Tutt’attorno tra gli altri passeggeri si crea un silenzio che diventa vuoto totale. Penso alla mia mattinata, alla serenità vissuta e mi domando cosa posso fare per questa persona così provata. Decido di affidarlo alla madre dell’umanità a Maria.

Passa il tempo e quando alza lo sguardo diretto verso di me, gli faccio un cenno di saluto con un leggero sorriso. Passa un po’ di tempo e mi pare di capire voglia sapere l’ora, con attenzione gli dico che sono le 17. Non mi risponde e continua a imprecare con meno intensità, ma ora sono deciso, voglio cercare un rapporto con questo mio dirimpettaio così particolare. Inizio col domandargli di dov’è: «Marsiglia» è la sua risposta secca, poi aggiunge di voler andare a Siviglia. Allora lo informo che in Francia è in corso lo sciopero nazionale dei treni. Resta indifferente.

Ad un certo momento vedo spuntare dalla manica della giacca a vento un coltellaccio di circa 15-20 centimetri. Gli faccio notare che se la polizia lo vede potrebbe passare guai: poco dopo lo ripone nello zaino.  Per me manca poco meno di un’ora all’arrivo, avrei un libro che m’ero portato da leggere nel viaggio, ma non voglio aprirlo, penso che sia meglio offrire la mia attenzione a questo passeggero particolare che intanto ha iniziato a rollarsi una sigaretta ma che terrà sempre in mano, naturalmente spenta. Ma ormai s’è creata una sorta di azzardata complicità, tanto che ad un certo punto, senza parlare, mi fa vedere che la bocca è priva di gran parte dei denti e poi racconta di essere fuggito dalla mafia che gli ha ucciso il figlio di sette anni. E poi ancora racconta che lui di anni ne ha 34.

Gli domando qual è il suo nome: mi colpisce l’improvvisa dolcezza con cui pronuncia Antonio. Questo è il mio nome mi dice. Gli domando se ha da mangiare e risponde che può stare anche cinque giorni senza toccare cibo. Poi mi dice che con sè non ha né denaro nè documenti. Gli porgo dieci euro, li rifiuta con fermezza, mi dice che gli basterebbe un euro che io non ho. Siccome insisto alla fine accetta la banconota da dieci. Mi viene spontaneo avvicinarmi sempre di più ad Antonio anche se manda cattivo odoreGli accarezzo un braccio, più volte ci stringiamo le mani.  Quando il treno è prossimo alla fermata di San Remo, si alza per accompagnarmi all’uscita e con tanta dolcezza fissandomi negli occhi dice: «Giovanni». Poi le porte si richiudono, il fischietto del capotreno da l’ok per ripartire. Ancora uno sguardo dal finestrino per entrambi per un grazie reciproco non pronunciato ma ben più ampio di un labiale.  E per me il senso di una giornata che si chiude in pienezza.  

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