Ci giochiamo il paradiso (fiscale)

Sottrarre alle grinfie del fisco il nostero sacchetto di euro. Depositarlo in un compiacente Paese. I Grandi ci vogliono rubare l'ultima speranza.
Articolo
Se c’è, è per pochi, dicono gli scettici a proposito del Paradiso. Non ci sono certezze della sua esistenza (per quanto siano consolatorie le descrizioni di esso), mentre restano ardue le vie per accedervi. Sembra sicuro che non si entri spinti dalla calca della folla all’ingresso, piuttosto per una smisurata comprensione dell’umana fragilità da parte del padrone di casa.

Resta, comunque, una faccenda del “dopo”, mentre nel frattempo conviene rendere meno insopportabile il passaggio in questa valle di lacrime e di tasse. Così, non sono mancati, in questi decenni di rare idealità e di idealizzati pragmatismi, quanti hanno provato a costruirsi di qua il proprio paradiso. Adesso, però, i marosi della crisi mondiale stanno schiaffeggiando anche queste presunte roccaforti.

Ne sa qualcosa Sheldon Adelson, il “re di Las Vegas”, proprietario di storici casinò negli Stati Uniti, con un patrimonio di 27 miliardi di dollari, piegato dalla crisi: ha perduto il 95 per cento delle sue fortune.

Adelson, purtroppo, non è un caso isolato tra i ricconi di ogni latitudine. E questo ha allarmato le masse di piccoli risparmiatori frodati e di lavoratori disoccupati, di giovani precari e di famiglie con l’incubo del mutuo di qua e di là dall’Atlantico. Nell’amaro della crisi, resta irrazionale consolarsi constatando l’enormità delle sventure altrui rispetto alle proprie.

Ma, si sa, le disgrazie non vengono mai da sole. E, come se non bastasse, alla gente comune è arrivata una nuova tegola. È successo che a fine febbraio si sono ritrovati a Berlino i capi di Stato e di governo di mezza Europa per elaborare misure comuni contro la recessione. Il britannico Brown ha parlato di «nuovo corso», Berlusconi di «parametri legali globali», mentre Sarkozy, consapevole «che non abbiamo il lusso di fallire», appoggia «misure non transitorie ma strutturali». Ebbene, nella nuova architettura finanziaria sono stati previsti per la prima volta provvedimenti contro i paradisi.

 

 Ma come si permettono! Così. D’improvviso. Quando eravamo convinti (addio certezze) che sino al giorno prima i reggitori delle nazioni europee non ne conoscessero l’esistenza, tanto si sono potuti indisturbatamente moltiplicare, quei paradisi, e ingrassare a beneficio di numerosi e variopinti potentati.

Per di più, è stata sollecitata la creazione di una lista dei paradisi. Veniamo così a sapere che, mentre il buon Dio ha fatto per l’altra vita un solo Paradiso, gli umani, dando sfoggio di feconda intraprendenza, di paradisi ne hanno inventati un sacco, e tutti frequentatissimi.

«Sono quegli Stati o territori – si legge nella definizione classica – che non prevedono un’imposizione fiscale sui redditi delle persone fisiche e giuridiche, o che assoggettano i redditi ad un’imposizione particolarmente blanda». Negli ultimi trent’anni, si sono sviluppati paradisi “interni” ed “esterni”, a seconda che ne beneficino residenti o meno, “personali” e “societari”, “fiscali” e “bancari”.

Persino bancari, l’ultima evoluzione. Sono Paesi che, per attrarre capitali, si sono dotati di servizi bancari e finanziari, in modo che il poveretto che non sa dove mettere i propri capitali trovi lì consulenti pronti a suggerire come costituire e gestire società esentasse, aprire conti correnti anonimi e quant’altro serve a gabellare il fisco del Paese d’origine. Tutto è facile, perché il paradiso prevede leggi accondiscendenti, un diritto bancario oscuro e massima segretezza nei confronti di eventuali richieste di informazioni da parte di autorità estere.

Se a queste favorevolissime condizioni si aggiungono la globalizzazione del commercio e degli investimenti e lo sviluppo tecnologico – che consente di spostare montagne di denaro con un semplice comando dato al computer –, è presto spiegata la proliferazione dei paradisi e l’incremento esponenziale degli avventori.

«In seguito a queste trasformazioni – spiega Sabrina Adiamoli, del centro ricerche della criminalità transnazionale – alcuni studiosi hanno individuato una nuova categoria, quella cioè di “rifugi penali”, che comprende Paesi già classificati come paradisi fiscali. È fuor di dubbio che siano utilizzati da trafficanti di droga, frodatori, terroristi e funzionari corrotti».

 

L’Ocse, organizzazione di Paesi sviluppati, tiene aggiornata la lista dei paradisi. Anche l’Europa ha i suoi: Monaco, Andorra, Liechtenstein, Lussemburgo, Austria, isole della Manica. La posta in palio, secondo le stime dell’Ocse, sono 5 mila-7 mila miliardi di dollari al sicuro nei paradisi. Capitali considerati in parte frutto di evasione, riciclaggio e corruzione e che hanno contribuito a gonfiare la speculazione e a far defragrare la crisi.

Sono due i motivi che fanno approdare i patrimoni nei paradisi: evitare le tasse del proprio Paese, ripulire il denaro sporco, frutto di attività illecite. Mentre questa seconda finalità è combattuta dalle polizie internazionali, la prima resta formalmente legale: attraverso la costituzione di società di comodo, si sottraggono introiti allo Stato, precludendo maggiori finanziamenti ai servizi pubblici verso i cittadini. Alla faccia del bene comune, tantissime aziende e banche dei Paesi più industrializzati vantano società nelle terre del deposito segreto.

 

Sinora i proclami di lotta sono rimasti lettera morta anche in seno all’Unione europea. Si confida negli accordi bilaterali tra Stati, ma più che eliminare il problema si costringe gli evasori a mutare destinazione.

 Nel bel mezzo dello stallo, ecco che arriva la crisi. I governi, costretti a salvare tante banche, hanno dovuto mettere il naso nelle loro attività, facendo emergere la quantità (enorme) di denaro che quei gruppi finanziari hanno parcheggiato nei cosiddetti Paesi off-shore (ovvero, al largo).

Le ultime speranze per noi che siamo riusciti a raggranellare con sudore un sacchetto di centesimi di euro è che il prossimo 2 aprile a Londra i venti Grandi lascino perdere le proposte di lotta ai paradisi fiscali. In fin dei conti, abbiamo diritto anche noi poveri diavoli ad un posto in paradiso. Almeno di qua. Vedremo le intenzioni di Obama. Là hanno messo alle strette la filiale americana del colosso bancario svizzero Ubs, che aveva aiutato cittadini statunitensi a evadere le tasse: multa di 780 milioni di dollari e obbligo di rivelare il nome di 250 clienti. Il mito del segreto svizzero vacilla. Come i paradisi fiscali. Proprio vero: non c’è più religione!

 

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Mediterraneo di fraternità

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons