Chopin o Liszt?

La domanda, che potrebbe sembrare stravagante, nasce spontanea dopo aver ascoltato i due amici-rivali (larvatamente in vita, decisamente – almeno nel gusto di molti appassionati – post mortem), Fryderyk e poi Franz. Del polacco le Ballate nn. 1 e 2, dell’ungherese la vasta Sonata in si minore. Al piano, un interprete che pur t roppo suona troppo poco in Italia, preferendo i maggiori centri musicali europei ed americani: Pietro De Maria, veneziano, classe 1967. Un pianista dall’aria tranquilla, senza snobismi o affettazioni “ispirate”: ma dal tocco prodigioso. Quando apre la serata con Chopin, il pubblicoparecchi giovani, siamo al festival Uto Ughi per Roma all’Auditorium della Tecnica – man mano si lascia prendere dalla sicurezza posata dell’interprete, la cui forza ispiratrice si sprigiona tutta sulla tastiera. Ne esce uno Chopin elettrizzante, dinamico, privo di frivolezze romantiche. L’intimismo di Fryderyk, così virile e nobile, cavalca il turbinio dei sentimenti, tanto che le Ballate sembrano a un certo punto percorrere un dramma esistenziale, quasi fossimo in una rappresentazione operistica. De Maria, senza esagerare in colori, usando il pedale con raro equilibrio, trattiene la foga “dentro”. Ma l’anima chopiniana a noi arriva con le sue immense arcate melodiche, le palpitazioni di un’armonia che fa della dissonanza una spia dell’emozione, il virtuosismo mai fine a sé stesso perché ansia suprema di liberazione. De Maria, persona dolce e riservata, “cava” dalla tastiera addirittura una dimensione “epica” del suono. Anche questo è Chopin. Quando si passa a Liszt, una sorta di transverberazione sonora ci prende, incalzante, prepotente. De Maria l’affronta, di petto, si direbbe; anche perché le difficoltà tecniche – enormi, come in Chopin – per quanto brillantemente, anzi quasi per gioco affrontate, ci sono, e mettono in tensione chi suona e chi ascolta. Il mondo lisztiano è fantasia onnivora, romanticismo sanguigno percorso da un’intelligenza e da una sensibilità aperte a tutto ciò che può essere nuovo. Resta in Liszt talora poco spazio ad una reale profondità. Potremmo dire che quanto Fryderyk scende nei meandri dell’anima e la porta in alto, tanto Franz percorre orizzonti più sconfinati, faticando tuttavia a fermarsi. De Maria lo sa: il suo Liszt è perciò “frenato” dall’eccesso, libero da gigionismi inutili, quasi più severo pur nella sua esuberanza. Si riesce alla fine, ad amare Franz Liszt. Anche se, per chi scrive, dalla “gara” fra i due grandi, esce vincitore Fryderyk, il poeta. Merito particolare di un interprete davvero straordinario, che ha poi beneficato il pubblico caloroso con due bis, fra cui, immancabile, la Campanella lisztiana.

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