Chi comanda qui?

Alla ricerca della vera partecipazione tra desiderio di comunità e poteri prevalenti

«Peppone si mise in ghingheri e uscì di casa per andare a votare. Davanti alla sezione si collocò in coda e tutti gli dissero: “Si accomodi signor sindaco”, ma egli rispose che in regime democratico tutti sono eguali. In realtà, trovava ingiusto che il suo voto valesse quanto quello di Pinola, lo stagnino che era ubriaco 7 giorni la settimana e non sapeva da che parte si alzasse il sole». I dubbi sul suffragio universale non appartengono solo al simpatico personaggio di Giovanni Guareschi.

Alcuni politologi sostengono l’epistocrazia. Limitare, cioè, il voto passivo e attivo ai meritevoli, ai sapienti. Ricompare la proposta dell’estrazione a sorte dei governanti tra un numero ristretto di “esperti” per evitare manipolazioni e corruzione.

I partiti sono appiattiti sul nome dei leader. Il M5S ha intercettato un bisogno di novità attirando persone finora lontane dall’impegno, sono legittimi i dubbi sulla sua “democrazia digitale”.

Esistono poteri, estranei alle logiche democratiche, ma che finiscono per impadronirsene, come dimostra il recente scioglimento, per infiltrazione mafiosa, proprio del comune di Brescello, il paese dove Peppone e don Camillo si prendevano a badilate ma erano parte di una comunità.

 

Quel referendum umiliato

La sovranità popolare è umiliata dal destino del referendum del 2011 sull’acqua pubblica. A che serve la vittoria della partecipazione diffusa per togliere la gestione del ciclo idrico al profitto delle società private se poi tutto resta come prima? Esiste già un potere dei pochi, non certo i migliori, che decide per tutti.

Alla uguaglianza formale della cabina elettorale corrisponde una disuguaglianza di poteri nella vita reale, a cominciare dalla signoria della “proprietà”, sempre più impersonale, nel mondo delle imprese. Sono ben salde “le mani sulla città”, evocate nel famoso film di Francesco Rosi.

Ma proprio in campo urbanistico si è tentato in Italia, nel recente passato, di introdurre metodi partecipativi delle scelte “dal basso”. Carlo Cellamare insegna nella storica facoltà di ingegneria della Sapienza a Roma e ha scelto, da tempo, di mettersi al servizio dei tanti comitati che cercano di porre un argine alla speculazione, attivando il Laboratorio di studi urbani “Territori dell’abitare”. Fuori raccordo. Abitare l’altra Roma (Donzelli Editore) è l’ultimo testo che ha curato per comprendere la crisi della Capitale. Come promotore della scuola di politica delle Cvx italiane (realtà laicale dei gesuiti), Cellamare ha contribuito ad offrire un criterio di azione: «Osservare la realtà, cercare di capire gli assetti di forza per poterli ribaltare quando ingiusti». Segue un progetto a Tor Bella Monaca, ferita aperta delle nostre periferie. «Da troppo tempo – afferma – ogni aspettativa di cambiamento sembra svanita. La politica? Assente. Incapace di ascoltare e cercare di offrire delle risposte alle esigenze delle persone che allora, nonostante tutto, cercano di auto organizzarsi». Un fenomeno presente in tutto il Paese, ad esempio riqualificando aree verdi e palazzi abbandonati ricavandone case, palestre e teatri in luoghi non utilizzabili con logiche di mercato.

Ovviamente certe realtà sono ben autodisciplinate, altre sono permeabili dalla malavita, ma rispondono a necessità ignorate dalla politica istituzionale, a cominciare dalla penuria di case popolari. Certo, dice Cellamare, non accedono alle scelte decisive della città come invece accade per i grandi capitali immobiliari.

 

La partecipazione non è un sondaggio

Come avviene il coinvolgimento reale delle persone? Non certo con la finta democrazia digitale che mette ai voti su web, ad esempio, il piano della mobilità sostenibile. La partecipazione non è un sondaggio ma un processo di ricerca del bene pubblico. Ha bisogno di un confronto aperto per arrivare a soluzioni anche diverse dalle ipotesi inziali. A sollevare un problema sono sempre in pochi, che sembrano destinati a soccombere. Michele Boato ha pensato bene, invece,  di mettere in un libro 80 casi di “cause vinte” per il bene comune cominciate con due o tre persone che hanno finito per coinvolgere interi territori. Su Città Nuova parliamo dell’inquinamento Pfas in Veneto e della “terra dei fuochi” in Campania, della riconversione del Sulcis Iglesiente in Sardegna per uscire dal ricatto della produzione bellica. La partecipazione nasce dalle coscienze personali e collettive. Non è una concessione delle istituzioni. Si costruisce, così, «un’alternativa alla globalizzazione escludente», come ha detto papa Francesco rivolgendosi ai movimenti popolari, partendo «dall’attaccamento al quartiere, alla terra, al lavoro». Esiste «una fame di politica, soprattutto nei luoghi che per anni sono stati desertificati», dichiara Christian Raimo, scrittore da poco assessore in un municipio romano. Si passa dalla denuncia alla proposta solo se esiste una decisa volontà di partecipazione che non delega e si fa carico dei problemi anche in maniera conflittuale. Non avremmo il patrimonio dell’Appia  Antica, a Roma, senza una forte opposizione agli interessi della cementificazione.

Altra cosa dalla partecipazione è l’amministrazione delegata, cioè l’affidamento regolamentato alla cittadinanza organizzata di beni comuni che l’ente pubblico non riesce a gestire. Come, in modi diversi, avviene a Napoli, Bologna o Torino. Non è la partecipazione a scelte strategiche come il bilancio e il piano regolatore.

Un coinvolgimento di tutti i soggetti interessati ai  piani di sviluppo locale avviene, da qualche anno, presso il ministero dello Sviluppo con la strategia per le “aree interne”, cioè quella parte d’Italia lontana dai centri urbani che coinvolge i tre quinti del territorio. È qualcosa di più del débat public, la procedura adottata in Francia per discutere solo l’applicazione delle decisioni politiche sulle infrastrutture, così come avviene in Toscana con l’organo di garanzia regionale alla partecipazione.

Esperienze interessanti ma diverse dalla pretesa, ancora viva negli anni ’90, di andare oltre la democrazia formale. Lo storico Paolo Prodi parlava di “tramonto della rivoluzione” come fine della tensione creativa tra istituzione e profezia intesa come “contestazione” del male nel mondo.  Il fascino crescente in Occidente verso modelli forti che, nell’incertezza, promettono sicurezza e ordine, la difficoltà ad organizzare una vera resistenza davanti a tali poteri, sono segnali di un fenomeno da leggere in profondità. Perché, come cantava Giorgio Gaber, «la libertà non è uno spazio vuoto, la libertà è partecipazione!».

Carlo Cefaloni

UN NUOVO TESSUTO PER LA DEMOCRAZIA

Sono stata sulla rocca dell’acropoli ateniese, tra il Tempio di Atena Nike e il Partenone voluto da Pericle per celebrare la vittoria  sui  persiani e la supremazia di Atene. Davanti a tale bellezza ripensavo alle parole che accolgono chi sbarca all’aeroporto di Atene: “culla della democrazia occidentale”.

I percorsi che le civiltà del pianeta hanno conosciuto per dare regole e istituzioni alla convivenza umana sono molto vari. La storia del concetto di democrazia, la sua evoluzione, è uno di questi percorsi che ha saputo attraversare i millenni, con una capacità di adattamento straordinaria, tuttora aperto all’esplorazione di nuovi territori. L’esperimento della “democrazia degli antichi” del V secolo a.C. è durato poco più di 150 anni. Poi il cammino delle idee e delle istituzioni politiche ha seguito altre vie, prima che la democrazia tornasse a radicarsi, secoli più tardi, nella rappresentanza politica, nel parlamentarismo, nel suffragio universale, nella tutela dei diritti delle persone.

Oggi, a distanza di 2.500 anni, le parole della democrazia sono cambiate: da una parte, crisi, declino, distanza, corruzione, assenteismo. Dall’altra, cittadinanza attiva, accountability, resilienza, trasparenza, rete… Cosa dire di fronte all’affermazione di un esponente del governo italiano che, nel corso di un evento pubblico, ha affermato che «il Parlamento non conta più nulla perché non è più sentito dai cittadini»? Se da una parte vi abbiamo letto una conferma della crescente svalutazione della principale istituzione che è al cuore della democrazia rappresentativa – una svalutazione che avanza da tempo e da più parti –, dall’altra lo scossone non ci ha tolto il sonno: è più che legittimo interrogarsi sul futuro di una istituzione che è composta da più di mille persone, selezionate in base a non si sa bene quale criterio di rappresentatività. Un serio aggiornamento sono i fatti a richiederlo.

Ma quelle parole – «il Parlamento non conta più nulla» – accanto ad altre rimbalzate nei luoghi estivi, dicono qualcosa di più e con tutta probabilità compongono un disegno che può condurre rapidamente a una concentrazione del potere decisionale sempre più densa.

Il fenomeno si intravede negli appelli ormai frequenti a forme e a strumenti politici “immediati” − la stessa elezione per sorteggio − che puntano anzitutto a rovesciare la piramide elettorale, a ripensare strutture obsolete lontane dalla vita delle persone. Con quali effetti? L’analisi è complessa. Se all’orizzonte si intravede una democrazia “disintermediata”, che punta a rimuovere i mediatori tradizionali con l’illusione di semplificare i processi, dovremo fare attenzione ai “nuovi mediatori”, a quelli cioè che sono pronti a sostituirsi a chi ha svolto finora tale funzione. Dovremmo farci una domanda: chi sopporterà il peso maggiore di tali processi di individualizzazione, di frammentazione sociale, in fin dei conti, di violenza? Con tutta probabilità, coloro che più difficilmente sono in grado di tutelarsi.

Dunque, non è finito il tempo della partecipazione, quella reale, di cui sono soggetti concreti i giovani, le donne, gli anziani, gli ultimi arrivati in città, quanti si incontrano tutti i giorni al lavoro, a scuola; non è finito neppure il tempo dei partiti e dei sindacati, se e finché fanno da telaio ad un nuovo tessuto. Non è finito il tempo di sentirsi parte attiva della nostra democrazia, e non solo virtuale. Torniamo dunque a parlarci, ad ascoltarci, a parlare di noi e del mondo, di governo della nostra città e di chi ci governa, discutiamo, fino a contagiarci reciprocamente di ciò che ci sta più a cuore. Forse la democrazia ricomincia anche da qui.

Daniela Ropelato

Istituto universitario Sophia

Partecipazione e potere reale

Ho appena finito di leggere l’ultimo libro di Parag Khanna, La rinascita delle città stato (Fazi Editore), una lucida radiografia dei mali della democrazia attuale. È rimasta la democrazia, ma non c’è più la politica, la capacità cioè di comprendere nelle scelte di governo i giovani e le prossime generazioni; siamo passati dalla role of law (la legge è uguale per tutti, anche per chi governa) alla più mediocre law to rule (si approvano le leggi che man mano servono a chi governa).

Le ricette davanti a noi sono sostanzialmente due: potere condiviso o in mano a pochi?

La prima, la “tecnocrazia diretta”, affida la visione, la strategia ai tecnocrati, scelti per curriculum.

La seconda opzione è chiamare alla partecipazione il popolo, quello che la Costituzione chiama “sovrano”, nucleo fondante della democrazia.

Ne ho parlato con un gruppo di giovani donne e la loro obiezione è stata questa: «Perché muoversi fuori casa la sera dopo il lavoro, lasciando la famiglia, se l’offerta è solo quella di ascoltare, di essere aggiornati di decisioni già prese, senza poter avere nessuna influenza?». Partecipare è reale se ci sarà davvero potere sul tavolo.

Facciamo un paio di esempi. Vogliamo che i cittadini diano le loro idee per un buon bilancio della città? Chiamiamoli in piccole assemblee locali a marzo, ben prima di scrivere il bilancio, raccogliamo le idee, scremiamo due o tre priorità attraverso una seconda consultazione, per poi affidarle a chi avrà la responsabilità di decidere.

C’è da decidere lo stipendio dei politici, il loro regime pensionistico? Indiciamo un referendum e i cittadini accetteranno di condividere un giusto onere della democrazia. Fornire le dovute informazioni tecniche, dare tempi certi, concentrarsi su un problema specifico, questo è governo partecipato, in cui si sviluppa una intelligenza incrementale data dalla reciprocità di saperi dei punti di vista diversi che dialogano per una soluzione condivisa.

Lucia Fronza Crepaz

Scuola di preparazione Sociale Trento

La democrazia che manca nei partiti

Rileggiamolo, l’art. 49 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Beh, dopo 70 anni bisogna dire che tra le due connotazioni avverbiali presenti in quelle poche parole, il “liberamente” ha avuto la meglio sul “metodo democratico”. La carica iniziale che segnava il passaggio storico del superamento della dittatura e la conquista della democrazia, si è in verità esaurita troppo precocemente, lasciando i partiti in balia di scalate di potere e personalismi, che li hanno resi fragili all’avvento impetuoso del regno dei mass media. Televisione, innanzitutto, tutt’oggi regina nella formazione del consenso. Un impatto che ha ingenerato nei partiti la risposta più immediata: il leaderismo più o meno “carismatico”, cioè un’organizzazione verticistica non bisognosa di democrazia e contrappesi. E ciò purtroppo è valso anche per quei partiti o movimenti che nominalmente nascevano con un forte statuto democratico, ma che nei fatti sono caduti nella trappola del leaderismo, fattosi oggi social-televisivo. Non è facile risalire la china: la democrazia è un rischio per il potere, che quindi tende a salvaguardare se stesso a costo di metterla in pericolo. Invece il potere per sperare di essere al servizio della collettività deve essere democratico non solo nel senso di espressione del popolo, ma anche inserito nella cornice di uno stato di diritto e non deve temere contrappesi e garanzie. Proprio ciò che in Italia da troppo tempo appare contaminato da una grande vischiosità che annulla i confini tra partiti, Stato, “poteri forti” e tra interessi pubblici e privati. Il che coinvolge anche noi cittadini. Una legislazione, a partire da quella costituzionale, più decisamente indirizzata al ripristino di questi confini avvierebbe davvero il cambiamento. Per cominciare una legge elettorale che archivi una volta per sempre i meccanismi di cooptazione e persegua invece trasparenza, conoscenza e libertà di voto.

Iole Mucciconi

Editorialista di Città Nuova

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