Che succede in Ucraina?

Attacchi inattesi, sciami di droni che si moltiplicano, dimissioni improvvise, avanzate e arretramenti: dove sta andando il conflitto nel Donbass? Da nessuna parte
Il presidente Zelensky al 7° meeting per la difesa ucraina (UDCG) alla Base aerea Usa a Ramstein, Germania, 6 September 2024. Ansa EPA/RONALD WITTEK

La tragedia di Gaza, dal 7 ottobre 2023, aveva spostato l’attenzione dell’infosfera dall’Ucraina al Medio Oriente, drenando dal quadrante del Donbass l’attenzione dei contendenti – soprattutto degli alleati di Kiev, che lo sono pure di Israele − e diminuendo le risorse umane e materiali a disposizione di Zelensky e soci. Da parte russa, l’impatto dell’ennesima recrudescenza della conflittualità in Israele e Palestina era stato minore, se non per l’alleato iraniano, invischiato in non poche vicende torbide mediorientali.

La risposta al quesito sul futuro della guerra del Donbass emerge in queste settimane con maggiore chiarezza: sia il campo russo che quello ucraino sono in difficoltà per lo stress prolungato che ha colpito dal febbraio 2021 i due apparati militari, amministrativi e produttivi, con il manifestarsi di gravi penurie di militari disposti a scendere al macello. Non si spiega altrimenti la scarsissima resistenza russa alle incursioni ucraine verso il territorio di Kursk, e la corrispondente debolezza delle resistenze ucraine nel Donetsk, in particolare attorno alla cittadina di Prokovsk.

E non stupisce che i due campi annuncino la produzione di armi risolutive e che cerchino di sorprendere l’avversario con sortite imprevedibili, o quasi, come certi attacchi ucraini nella penisola della Crimea, o come i recenti bombardamenti russi a Leopoli, città pur lontanissima dai campi di battaglia. Anche i sommovimenti interni ai governi, alle amministrazioni e ai vertici militari delle due parti – ultime, in ordine di tempo, le dimissioni del ministro degli Esteri di Kiev, Kuleba, che parla bene il nostro idioma per lunghi soggiorni adolescenziali e giovanili nel Bel Paese – sono un chiaro indice delle difficoltà che i due campi attraversano nel momento in cui pare chiaro che la guerra la perderanno entrambe le parti, anzi l’hanno già persa.

Gli Stati Uniti hanno ormai la testa alle elezioni di novembre, mentre l’interesse di Washington è particolarmente orientato sul quadrante israelo-palestinese, anche se non cessa il flusso di armi, consiglieri militari e informatici e di intelligence verso Kiev. L’Europa, invece, senza ancora una squadra di governo al lavoro e alle prese con un complesso semestre presidenziale a guida ungherese, si divide sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Kiev, in particolare per la questione non di poco conto dell’eventuale uso di armi made in Europe in territorio russo, e per la limitazione del raggio di azione dei missili forniti dai singoli Paesi all’Ucraina. Tutto ciò perché Bruxelles non vuole e non ha interesse ad accentuare l’irritazione e i contrasti con Vladimir Putin.

Gli stessi presidenti ucraino e russo vedono apparire delle crepe sulla costruzione dell’aura mitizzata di chi inizia una guerra apparentemente giusta, se non addirittura salvifica, e sembrano annaspare, non potendo più negare l’impossibilità di vincere per ko il conflitto del Donbass. E le liste – quelle si inesauribili – di morti sul campo di battaglia non fanno che accentuare il malessere e i dubbi delle popolazioni civili. Per tutto ciò, e per altro ancora, potrebbe essere il momento giusto perché la comunità internazionale “costringa” i contendenti a sedersi attorno a un tavolo. Ma gli sforzi diplomatici, in questo momento, sono concentrati sulla polveriera mediorientale. E l’irrigidimento delle posizioni in quella regione non favorisce la creazione di un clima adatto ai negoziati. Eppure, non c’è altra via per mettere fine a un conflitto che ormai – tra Prima e Seconda guerra del Donbass – ha festeggiato (eufemismo d’obbligo) i suoi primi 10 anni di vita (ovvero di morte).

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