Che fine ha fatto il referendum sull’acqua?

La campagna di "obbedienza civile" dei comitati per l’acqua pubblica denuncia il mancato rispetto dell’esito del referendum. Roma come caso emblematico
Protesta acqua pubblica

Se non fosse per gli scontri avvenuti in Campidoglio, l’anniversario del primo anno dai referendum sull’acqua pubblica resterebbe in sordina. Eppure il 12 e 13 giugno del 2011, grazie all’effetto trainante del quesito contro il ritorno al nucleare, si è registrata in Italia la vittoria di una realtà diffusa e misconosciuta di una rete di comitati cittadini. Una forza che ha portato alle urne 28 milioni di elettori, nonostante il mancato accoppiamento delle date con le elezioni amministrative. In sostanza il 95 per cento dei votanti ha formulato un “no” convinto contro la privatizzazione della gestione dell’acqua.
 
Il comitato promotore del referendum ha definito l’evento «un momento di grande esplosione democratica, dove il popolo si è ripreso il diritto di decidere della propria vita e del proprio futuro». Ed è lo stesso comitato che subito dopo la vittoria ha denunciato la mancata volontà del Parlamento di porre in discussione la proposta di legge di iniziativa popolare che prevede forme di partecipazione diretta alla gestione dell’intero ciclo idrico integrato.
 
Una legge che chiama in gioco i necessari investimenti pubblici e quindi l’intervento di quella fonte di risorse pubbliche che è la Cassa depositi e prestiti. Una visione radicalmente diversa, quindi, da un ritorno a un’occupazione partitica e clientelare delle aziende pubbliche, secondo un modello che fa riferimento a esperienze del Latino America e a realtà molto più vicine, come la società idrica di Parigi, sottratta a una delle principali multinazionali francesi dell’acqua. A un anno dal 12 giugno 2011, i comitati denunciano invece che «tutte le forze politiche parlamentari, comprese quelle che si sono accodate alla campagna referendaria nell’ultima settimana, hanno fatto e stanno facendo di tutto per affossare i referendum».
 
In particolare viene contestata la decisione di molti sindaci, presenti negli ambiti territoriali di gestione delle risorse idriche, di aver confermato la presenza nelle tariffe pagate dai cittadini di quella voce specifica “remunerazione del capitale investito”, che doveva scomparire secondo la lettera del secondo quesito del referendum. Contro questa risoluzione i comitati stanno promuovendo una campagna di appelli e lettere ai gestori, denominata “campagna di obbedienza civile”.
 
Il caso Acea è un capitolo emblematico di questa vicenda. Il dossier privatizzazione sembrava accantonato dopo l’esito del referendum. Il risultato, infatti, è arrivato inatteso nel pieno della competizione tra i soggetti di primo piano interessati a conquistare la maggioranza della società che gestisce anche l’intero ciclo idrico con interessi e partecipazioni a livello nazionale e internazionale. La decisione del comune di Roma di procedere comunque alla cessione delle quote di maggioranza ha suscitato la reazione del movimento per l’acqua pubblica che ha denunciato la «totale sospensione di tutte le più elementari regole democratiche che dovrebbero essere garantite nella gestione della cosa pubblica» e ha invitato alla presenza nell’aula del Consiglio comunale con slogan striscioni del tipo «Roma non si vende».
 
Il clamore degli scontri condurrà probabilmente allo svolgimento di un consiglio comunale a porte chiuse che ratificherà la scelta della giunta di cessione delle quote di Acea ai privati, con esiti che sarà opportuno seguire.
 
Il caso Roma è destinato a rimettere al centro la questione dell’applicazione degli esiti del referendum popolare sull’acqua. Dopo la parata della festa nazionale del 2 giugno, la Capitale ha visto sfilare anche i comitati di tutta Italia per ribadire che la «Res pubblica siamo noi», a dimostrazione di una volontà di proposta politica che la crisi generale non sembra attenuare.
 
 

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