Che culmina lassù

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Ci sono paesi che sembrano aver scelto luoghi fatati per toccare terra e radicarsi come arbusti che crescono dove nulla sembra poter attecchire. Un borgo di quaranta case, forse una cinquantina, accostate le une alle altre come per proteggersi dal vento, dalla neve, dai demoni. Dai fauni e dalle dee silvane, da ninfe e satiri. Solo il terremoto, uno dei tanti, ha ferito la cittadella abbarbicatasi nei secoli alla roccia. Vi si giunge dall’altipiano delle lenticchie, raggiungibile a sua volta da un altro altipiano, quello di Norcia. Il primo gradino è desolato ed erto, solo pietre e sassi e arbusti e verde appassito. Il piano, invece, è sorpresa continua, che ad ogni stagione cambia veste per meglio presentarsi al cospetto del re del castelluccio, lassù, in alto, preservato dalla contaminazione della gente del piano. Ora è un arazzo rubino, dalle lenticchie in fiore. Ora è un affresco dugentesco mutevole, Duccio da Boninsegna o Simone Martini. Ora invece è olio impressionista, Van Gogh o Gaugain, col verde che progressivamente muta in un giallo che è erba e che è sole, come una pennellata divina. Tutta una scusa per onorare il monarca isolato coi migliori tessuti, coi colori più insoliti, con le corone più inattese. Ma in realtà il re del castelluccio non esiste, non è mai esistito, se non nella fantasia della gente che voleva inventare un perché al pellegrinaggio in questo incantevole angolo senza santuario. Una scusa per salire in questo luogo che ricorda come il cielo sia uno specchio che riflette tutti i colori del mondo. O viceversa.

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