Charles Péguy e il nazionalismo universale

Filosofia, patriottismo, giustizia sociale, fede cristiana e disprezzo della modernità. Un gigante (inquieto) del pensiero
Charles Peguy in un dipinto di Jean-Pierre Laurens (wikipedia)

Era un poeta, uno scrittore, ma l’hanno studiato pure i grandi teologi. De Lubac, per esempio, o Von Balthasar, che nel terzo volume del suo Gloria dice che è stato «uno dei pochissimi uomini essenziali dai tempi di Gesù Cristo».

Probabile sia vero ma, paradossalmente, di quest’uomo essenziale – parlo del francese Charles Péguy, nato a Orléans nel 1873, quindi precisamente 150 anni fa – la cosa più difficile è proprio definirne l’essenza. Perché è stato tutto e il contrario di tutto. Vediamo perché.

Di famiglia contadina e operaia (la madre impagliava sedie con la stessa cura con cui gli scalpellini del Medio Evo lavoravano alle cattedrali, scriverà il figlio), sarebbe appartenuto pure lui al “quarto stato” se un brav’uomo notandone il potenziale non lo avesse fatto studiare a Parigi, al liceo e poi alla prestigiosa Ècole Normale Superieure, dove però entra con una borsa di studio meritata da lui stesso sul campo.

E qui la prima incongruenza, la prima “follia”. Pur adorando lo studio e passando gli esami a pieni voti, di punto in bianco Péguy abbandona l’università. Ma continua a frequentarla, specie per seguire Bergson e Rolland, che predilige. E giustamente, visto che anni dopo avranno entrambi il Nobel per la letteratura!

Soprattutto il primo sarà tra i suoi ispiratori, e al filosofo spiritualista va affiancato un altro faro dell’Ècole Superieure, il bibliotecario Lucien Herr, mentore di Péguy nel fargli abbracciare sia il socialismo che la causa dreyfusarda, allora al centro delle più fiere polemiche e divisioni in Francia.

Nel 1897 il 25enne Péguy, datosi alla scrittura e alla militanza politico-ideologico-culturale, fa le sue scelte fondamentali. È socialista e antiborghese, lettore feroce ma senza laurea, anticlericale e spiritualista, antimilitarista (perché pro Dreyfus) ma nazionalista fino al midollo, rivoluzionario ma tradizionalista fino in cima ai capelli.

E l’anno stesso, in barba alla sua vita precaria, sposa Charlotte-Françoise Baudoin e in pochi anni diventa 4 volte padre. Ma pure qui Péguy non manca di esibire l’inquietudine e la contraddittorietà che sono in buona misura la cifra dell’autore e dell’uomo. Infatti nel 1910 si innamora seriamente dell’ebrea Blanche Raphael, restando però sempre un marito fedele.

Contemporaneamente si converte al cattolicesimo. Ed è fedeltà anche qui fino alla fine, ma con l’immancabile antinomia: non era praticante, così almeno i testimoni.

E che scrive, questo intrico di complessità, discordanze e passione? All’inizio saggi e pamphlets polemici, cominciando ad ammassare la sua materia – filosofia, patriottismo, forte eticità – e saggiando il suo stile, lampeggiante, torrenziale, schietto fino allo spoglio totale di sé.

Dopo la conversione ecco la fede e l’esprit religioso (ma c’era pure prima) a unificare e vitalizzare il tutto. Pubblica fra l’altro Un nouveau théologien, Il denaro, Note sur Bergson et sa philosophie. E nel ‘12-‘13 arrivano i capolavori, in un misto di prosa e versi sciolti: Il portico del mistero della seconda virtù (la carità, l’amore, focus della vita e ispirazione di Péguy), Il mistero della carità di Giovanna D’Arco e Il mistero dei santi innocenti.

Tutta l’opera è stata pubblicata da Gallimard nell’87-‘92 in 3 tomi. Non meno di 25 titoli.

Ma concludendo, cosa ci ha dato, che rappresenta, che significa Péguy? Anzitutto è francesissimo, in modo cordiale e viscerale; ama la Francia, la sua identità, la storia e soprattutto le sue tradizioni, popolari s’intende. Eppure è un poeta e autore universale e amato in tutto il mondo.

La giustizia sociale è per lui un dogma imprescindibile, e rimane socialista fino alla fine, nelle convinzioni e nell’anelito di equità e uguaglianza che percorre le sue pagine e i versi. C’è un’eticità fortissima, un odio del male e un anelito costante alla rettitudine, alla virtù.

E soprattutto c’è la fede cristiana, interpretata con forza e libertà, con passione ed entusiasmo, con assoluta serietà e profondità. È una cultura spirituale che porta Péguy da un lato al misticismo, al desiderio di santità, dall’altro alla polemica e al disprezzo della modernità come disumanizzante.

«Non si saprà mai – scrive nel 1905 in Notre Patrie –, quali atti di codardia sono stati commessi per paura di non sembrare abbastanza progressisti». E ancora, condannando il pensiero moderno, di cui salva solo l’antintellettualista (come lui) Bergson: «L’etica kantiana ha le mani pulite ma, per così dire, in realtà non ha le mani».

Scrisse anche drammi. L’ultimo col fucile al posto della penna, morendo nella battaglia della Marna il 5 settembre 1914. C’era andato volontario, per amore della terra di Giovanna D’Arco, icona e sintesi di fede-opera-personalità di Charles Péguy.

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